M.D.
numero 37, 7 dicembre 2005
Rassegna
Obesità e farmaci: una querelle
ideologica?
di Roberto Ostuzzi* e Ottavio Bosello**
L’obesità è un problema complesso e articolato
di grande impatto sociale, ma soprattutto è una malattia
per la quale il medico deve recuperare una corretta capacità
di prescrizione farmacologica, inserita in un contesto terapeutico
multidimensionale. I farmaci per l’obesità rappresentano
uno strumento efficace se usati con sicurezza e con chiarezza
di strategia
Anche
gli italiani, come il resto del mondo, ingrassano: dalla drammatica
situazione degli Stati Uniti d’America (sino al 75% di
soggetti in eccesso di peso, con valori maggiori del 4% per
quelli con BMI >40) a quella inquietante dei Paesi in via
di sviluppo, nei quali l’obesità aumenta a vista
d’occhio.
In Italia, l’obesità prevale per circa il 10% con
valori in aumento, soprattutto al Sud, e vi sono circa 5 milioni
di soggetti obesi (BMI >30) e almeno 15 milioni di soggetti
sovrappeso (BMI >25). Molto preoccupante è la situazione
dell’età evolutiva con incidenza di obesità
maggiore dell’adulto e con la comparsa di diabete di tipo
2, sino a oggi tipico del soggetto adulto.
Oltre agli oramai ben noti rischi di morbiltà e mortalità
associati all’eccesso di peso, impressionano i relativi
costi economici. Gli americani spendono per l’obesità
oltre 100 miliardi di dollari l’anno; in Italia, si è
calcolato che il costo si aggiri sui 23 miliardi di euro all’anno.
L’obesità è una condizione morbosa grave,
cronica, con elevato rischio di morbilità e mortalità,
non guaribile e curabile con grande difficoltà. Nella
cura dell’obesità si ottengono, spesso, risultati
significativi, ma solo di breve durata. Con l’interruzione
delle cure e comunque a distanza di 5 anni quasi tutti gli obesi
trattati presentano recupero del peso perduto, soprattutto se
il calo è stato rapido e consistente, cioè maggiore
del 10%.
La cura dell’obesità sembra una sfida “impossibile”,
irta di difficoltà e con notevole carico di insuccessi.
Considerato che l’obesità è ritenuta una
malattia cronica, la cura deve porsi obiettivi compatibili,
identificati già nelle Linee Guida Italiane per l’Obesità
(LIGIO 1999) e più volte ribaditi dalle maggiori istituzione
e società scientifiche internazionali.
Si è scelto di non affrontare, in questa sede, il tema
della chirurgia bariatrica, che pure si sta molto diffondendo
soprattutto in relazione alla presunta inefficacia delle cure
conservative. Non esistono, comunque, dati sufficienti e convincenti
che le difficoltà dell’approccio chirurgico siano
diverse da quelle dell’approccio convenzionale. Anche in
questa opzione, la maggior parte dei soggetti che riescono a
perdere peso in seguito recuperano, seppure lentamente, il peso
perduto. Sono pochi i soggetti con cali significativi che riescono
a mantenere nel tempo il risultato conseguito.
Differenza di obiettivi tra medico
e paziente
Non verranno specificamente approfonditi i motivi per cui la
cura dell’obesità è così complessa
e raramente centra l’obiettivo a lungo termine di un calo
duraturo e consistente.
È da ricordare, però, un aspetto importante: la
differenza tra gli obiettivi del paziente e quelli del medico.
Il paziente cerca sempre la soluzione definitiva del suo problema
ponderale, soluzione che egli vede solo nel raggiungimento di
un peso normale o quasi, non certo nel calo di quel 5-10% che
rappresenta l’obiettivo del medico: la riduzione ponderale
del 10%, mantenuto nel tempo, è il goal migliore che
ci si può aspettare.
Per questo, il termine “insuccesso” assume significati
diversi per il professionista e il paziente. Malauguratamente,
questa differenza non si traduce solo in una delusione per il
paziente, ma più spesso in un’incomprensione, per
cui il paziente non accetta il calo modesto, ma insiste per
ottenere quel peso ideale che, per lui, è l’unico
vero risultato accettabile.
Una volta ottenuto un dimagramento, all’inizio giudicato
accettabile, solitamente il soggetto in eccesso di peso vuole
proseguire la riduzione ponderale; è anche vero che è
difficile trovare una stabilizzazione, per cui abbandonare la
restrizione calorica significa, spesso, riprendere le vecchie
abitudini alimentari, con inesorabile recupero del peso. Questa
è, oramai, la storia naturale dell’obesità:
la sindrome dello yo-yo.
A questo, si deve aggiungere che ripetuti cali di peso e successivi
recuperi, spesso anche più consistenti, comportano aumento
del rischio cardiovascolare. Gravato da tutte queste difficoltà,
il medico preferisce concentrare i suoi sforzi terapeutici sul
diabete, sulla dislipidemia e sull’ipertensione, piuttosto
che sulla riduzione del peso, anche se è noto che il
principale fattore di rischio per le suddette patologie è
rappresentato dal peso eccessivo.
Cardini della terapia
Oggi la cura dell’obesità è basata su 3-4
cardini: correggere le abitudini alimentari, mirare a modifiche
dello stile di vita con particolare attenzione all’attività
fisica, adottare strategie comportamentali che possono essere
accompagnate da aiuti farmacologici.
Sia nei casi più gravi e complessi come in quelli più
semplici, i cardini della terapia restano gli stessi; possono,
a volte, cambiare le figure implicate, poiché non sempre
lo specialista in “obesità” (di volta in volta
il nutrizionista, l’endocrinologo, il diabetologo, il cardiologo,
o in genere l’internista) sa affrontare adeguatamente le
diverse dimensioni implicate (internistica, nutrizionale, sociale,
psicologica e psicopatologica). È certamente necessario
che lo specialista in obesità abbia un’ampia ma
specifica formazione, basata su tutti gli aspetti succitati.
È evidente che, in un percorso di trattamento “long-term”,
le diverse strategie di controllo del peso possono essere variamente
intrecciate e modificate, a seconda della situazione clinica
e psicologica in cui si trova il paziente. La strategia della
cura deve vedere nel cambio dello stile di vita (alimentazione
e attività fisica) e nel benessere e nell’equilibrio
psico-fisico il vero obiettivo; il calo di peso va posto come
conseguenza di questi obiettivi. Solo così sarà
possibile allontanare il focus della cura dal semplice e numerico
risultato legato ai chilogrammi perduti. Certo, questo non è
facile sia perché il paziente pensa solo al calo di peso,
sia perché il terapeuta non sempre riesce a uscire dalla
logica perdente della restrizione calorica e del bilancio energetico
negativo come risposta risolutiva.
La terapia nutrizionale condotta con corrette modalità
non prescrittive è, comunque, l’inesorabile punto
di partenza del percorso di cura; a questo vanno associate le
modificazioni comportamentali che possono favorire l’acquisizione
di uno stile di vita più adeguato, in relazione al calo
di peso. Non si possono sottovalutare le situazioni di disagio
psicologico spesso favorite dallo stigma sociale dell’obesità
e dai precedenti tentativi inefficaci; questi aspetti richiedono
un aiuto psicologico e, a volte, farmacologico specifico.
Infine, i farmaci per l’obesità: essi rappresentano
uno strumento terapeutico di cruciale importanza che deve essere
usato con strategie e tattiche ben precise, perché vi
sono oramai consolidate evidenze che favorisce il calo di peso
e, con esso, la riduzione degli effetti collaterali dell’eccesso
ponderale, oltre a contenere il rischio di abbandono delle cure.
Vi è da dire che non vi sono ancora chiare informazioni
sull’efficacia e sulla sicurezza della terapia farmacologia
condotta per lungo tempo o in modo continuativo e/o intervallato.
Diversità nell’approccio
Approccio nutrizionale
Nell’approccio all’obesità vi sono evidenti
e significative diversità, per non dire una chiara dicotomia,
tra i medici di formazione squisitamente nutrizionale e quelli
di formazione genericamente internistica.
Il nutrizionista propone come cura la “dieta”, specie
nella sua accezione di stile di vita; questo implica un intervento
sulle abitudini alimentari, sull’attività fisica,
sulla gestione delle situazioni a rischio, sulla motivazione
terapeutica, sulla consapevolezza della cronicità del
quadro clinico. Il farmaco non rientra negli strumenti utilizzati,
quanto meno non certamente negli strumenti iniziali. Spesso
verso il farmaco c’è una sorta di pregiudizio, il
cui uso automaticamente andrebbe a compromettere la validità
dell’approccio “ideale”.
Non si può disconoscere che c’è stato, spesso,
un uso incongruo del farmaco da parte di medici incompetenti
o peggio in malafede, interessati solamente a far conseguire
comunque un calo di peso, non tenendo conto delle ricadute con
possibili, pesanti conseguenze fisiche e psicologiche. Il “nutrizionista”
pensa di utilizzare il farmaco come ultima chance e lo vive
come tradimento di quell’approccio che è ritenuto
più “etico”. Spesso decide di utilizzarlo giusto
dopo che il trattamento è fallito e/o il paziente è
insoddisfatto dei risultati e delle difficoltà incontrate
nella cura.
Approccio clinico
L’altro gruppo di medici, chiamiamoli genericamente i “clinici”,
è maggiormente orientato al farmaco, convinti che l’obesità
è una malattia e non solo un’alterazione dello stile
di vita. Per quanto riguarda l’intervento nutrizionale,
spesso questo si limita alla dieta classica, rigida e schematica,
fatta solo di grammature e alternative, raramente accompagnate
da altre spiegazioni e suggerimenti.
Spesso è un foglio prestampato, che viene consegnato
con l’indicazione di rispettarlo, come deve fare un bravo
paziente che ascolta il suo medico: approccio non meno sconfortante
del precedente, certamente più diseducativo e inefficace.
Questo approccio nasce spesso da un inconsapevole ma diffuso
pregiudizio e cioè che il paziente obeso sia solo un
ingordo, che non sa controllare il suo desiderio di cibo.
Anche al paziente va bene questo approccio perché chiede
meno partecipazione e motivazione. In caso di fallimento è
più semplice per lui pensare che sia il farmaco che non
è efficace e attribuirgli la colpa del fallimento. A
questi clinici va ricordato che l’evidente efficacia farmacologica
si manifesta soprattutto in un contesto terapeutico multidimensionale.
È solo in queste circostanze che l’uso del farmaco
può rappresentare la differenza tra successo e insuccesso
terapeutico.
Pericolosità di stili alimentari
rigidi
Vi è anche una terza categoria di medici (?) che prescrivono
diete fantastiche e fantasiose, carismatiche e suggestive, caratterizzate
da stili alimentari rigidi e schematici. Spesso furbescamente
(e ingannevolmente) affermano l’esistenza di allergie e
intolleranze, per cui il malcapitato non può, per esempio,
mangiare cibi provenienti dal frumento o dal granoturco.
Vi sono, poi, i seguaci delle diete di “moda”: dalla
Atkins Revolution Diet alla Dieta Zona, vi è solo l’imbarazzo
della scelta. Sono, sostanzialmente diete ipoglucidiche: a breve
termine ottengono risultati perché l’eliminazione
dei carboidrati dall’alimentazione induce perdita di acqua
endogena, ad essi legata metabolicamente, con perdita di peso.
In genere, il peso perduto viene rapidamente recuperato, perché
queste diete non sono mantenibili nel tempo. Sarebbe anche
peggio il mantenerle, poiché significherebbe condannare
il soggetto a un’alimentazione scorretta, caotica e comunque
dannosa.
Tali comportamenti non infrequentemente sfociano in disturbi
alimentari anche più gravi, soprattutto nelle giovani
ragazze che hanno particolari caratteristiche psicologiche che
le rendono più fragili e a rischio. Questa terza categoria
non meriterebbe neppure una seria discussione, se non fosse
che queste “diete” sono molto seguite e forse sono
quelle che più hanno danneggiato l’uso razionale
del farmaco, che viene visto come qualcosa che inquina i loro
schemi dietetici e toglie loro l’indispensabile “magia”.
Recuperare la corretta capacità
prescrittiva
L’obesità rappresenta un problema di grande interesse
sociale, ma soprattutto è una malattia per la quale bisogna
recuperare una corretta capacità di prescrizione farmacologica.
Il farmaco è un ausilio importante, a patto che sia usato
con sicurezza di indicazione e con chiarezza di strategia.
Certamente, non aiuta il fatto che i farmaci per l’obesità
non siano rimborsabili, anche parzialmente, dal Servizio sanitario
nazionale, quasi considerati alla stregua di cosmetici. Per
evitarne un uso scorretto sarebbe necessario consentire la prescrizione
sulla scorta di piani terapeutici validati e sottoporne a verifica
i risultati.
Per necessità di spazio si è dovuta presentare
in modo schematico una realtà molto complessa e articolata;
in verità, esistono specialisti di molteplici formazioni
capaci e competenti.
Sembra però molto discutibile l’atteggiamento di
quei medici che vedono nel farmaco una sorta di rinnego del
loro operare e ritengono che il farmaco venga dopo, talmente
dopo da non prescriverlo mai.
La letteratura scientifica, anche di elevato prestigio, sta
considerando con grande attenzione i risultati degli studi che
prevedono l’uso del farmaco in programmi terapeutici multidimensionali.
L’efficacia terapeutica di alcuni farmaci per l’obesità
è ampiamente documentata: allora, perché non usarli,
inseriti in una strategia a lungo termine, motivazionale e tattica
che può anche migliorare la compliance del paziente?
Bisogna evitare illusioni e un cattivo uso del farmaco, ma ignorare
questo ausilio terapeutico sembra illogico e settario.
* Roberto Ostuzzi - Presidente ANSISA (Associazione Nazionale
Specialisti in Scienza Alimentazione) - Medico Responsabile
Centro Disturbi Alimentari
Casa di Cura Villa Margherita, Arcugnano (VI)
** Ottavio Bosello - Presidente SISDCA (Società Italiana
Studio Disturbi Comportamento Alimentare), Professore di Geriatria
e Gerontologia
Direttore Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgiche
Divisione di Geriatria, Scuola di Geriatria - Centro per lo
Studio dell’Obesità
e dei Disturbi Alimentari - Università di Verona