M.D. numero 1, 18 gennaio 2006

Rassegna
Luci e ombre sull’influenza aviaria
di Massimo Galli, Professore Ordinario di Malattie Infettive, Università degli Studi di Milano, AO Polo Universitario ³Luigi Sacco²

Siamo pronti ad affrontare una nuova pandemia influenzale? Oggi sono disponibili le competenze sanitarie per allestire i presidi di contenimento della pandemia, ma il punto chiave è intervenire in via preventiva dove il problema si genera, evitando che condizioni igenico-sanitarie incongrue fungano da amplificatore per la generazione di ceppi ad alta patogenicità e da ponte per la loro “umanizzazione”

Q
uando la redazione mi ha caldamente richiesto una “messa a punto” sull’influenza aviaria non sono riuscito a dire di no, solo per pentirmene pochi istanti dopo. Ho scritto, “stracciato” e riscritto questo articolo almeno mezza dozzina di volte, poi mi sono deciso a completarlo.
Il fatto è che molto è ancora da definire e la recente martellante campagna di stampa non ha contribuito alla chiarezza. Accettando il rischio di errori o imprecisioni, affermerei quanto segue.

  • Non è probabile che N5H1 possa divenire il responsabile di una nuova pandemia influenzale umana in tempi brevi, e quindi che questo possa accadere nell’inverno 2005-2006.
  • È provato, allo stato attuale delle conoscenze, che la trasmissione animale-uomo è infrequente e necessita di un’esposizione molto “significativa” agli animali infetti. La trasmissione uomo-uomo resta eccezionale (forse tre casi a tutt’oggi).
  • È tuttavia giustificata da parte dei governi la costituzione di scorte per la profilassi ed eventuale terapia degli esposti (per esempio, del personale addetto a un allevamento ove si verificasse un’epidemia tra gli animali) come suggerito dall’OMS. Potrebbe avere senso vaccinare con il ceppo virale implicato coloro che dovessero gestire epidemie aviarie (veterinari e personale di aziende avicole) nei Paesi e nelle aree geografiche già colpite. È tuttavia azzardato, in termini di costo/beneficio, pensare a vaccinazioni di massa con gli attuali ceppi aviari: non è dato prevedere, infatti, come evolverà il virus nel caso dovesse “umanizzarsi”, diventare cioè un ceppo facilmente trasmissibile da uomo a uomo, e non è dato prevedere quanto e se i vaccini oggi allestibili possano essere protettivi nei confronti di un ceppo “umanizzato”. L’OMS ha comunque indicato i ceppi di H5N1 da considerare per la preparazione del vaccino per gli eventuali esposti. Va tuttavia ricordato che quando si parla di costi di una nuova vaccinazione di massa non si parla solo di aspetti economici. Quando nel 1976 gli USA decisero di vaccinare in massa contro un ceppo di influenza suina, furono lamentati oltre 4.000 casi di neuropatie (principalmente sindromi di Guillain-Barrè) attribuiti alla vaccinazione.
    Questa attribuzione è e resta controversa, ma tenuto conto che il temuto diffondersi di un ceppo suino di H1N1 altamente patogeno in effetti non si è verificata, questa esperienza ha “vaccinato” gli esperti contro la tentazione di ricorrere a cuor leggero alle vaccinazioni di massa in scenari ancora non bene definiti. Va ricordato che la vaccinazione contro i ceppi di influenza A umani attualmente circolanti non garantisce protezione contro H5N1 e che quindi il presunto “incombere” dell’influenza aviaria non è motivo valido per l’estensione della vaccinazione antinfluenzale al di fuori delle indicazioni correnti.
  • Passando al tormentone sulla presunta pericolosità della carne di pollo (e di volatili in generale), la risposta è ovvia e banale: “no virus, no risk”. Prima che il virus arrivi in tavola, bisogna che i polli si infettino. E se entrambi, il pollo e il virus, ci arrivano ‘cotti’, non c’è rischio di infezione. Sono comunque giustificate le misure di restrizione dell’importazione di volatili vivi e morti dai Paesi colpiti da epizoozie da H5N1, mentre l’astensione da carni di volatili e uova provenienti da aree non colpite è frutto di una risposta irrazionale, effetto collaterale indesiderato delle campagne mediatiche.

Quadro epidemiologico e clinico

Il lettore che desiderasse disporre solo di qualche suggerimento per rispondere alle domande più frequenti può tranquillamente interrompere qui la lettura. Ove invece desideri disporre di qualche informazione in più, può trovare di seguito qualche approfondimento e riferimento bibliografico.
In base al report dell’OMS del 10 gennaio 2006 i casi sono stati 147, di cui 78 deceduti. I Paesi colpiti sono stati il Vietnam, con 93 casi e 42 morti, la Thailandia con 22 casi e 14 morti, la Cambogia, con 4 casi, tutti deceduti, la Cina con 8 casi e 5 morti, l’Indonesia con 16 casi e 11 morti e la Turchia con 4 casi e 3 morti).
In merito al quadro clinico dell’H5N1 umana, la rassegna più recente e completa è comparsa sul New England Journal of Medicine (2005; 353: 1374-85) nel mese di settembre (l’articolo dava conto di 122 casi, con 57 morti, osservati a partire dal 2003).
La rassegna riferisce anche di studi sierologici eseguiti in pazienti esposti all’infezione che non hanno presentato sintomi significativi. In alcuni di essi il riscontro di anticorpi specifici suggerisce la possibilità di infettarsi senza manifestare malattia. Solo una parte delle infezioni dà quindi luogo a casi clinicamente manifesti. La grande maggioranza di coloro che hanno sviluppato malattia ha avuto stretti contatti con volatili domestici: sono riportati casi in allevatori di galli da combattimento, in bambini con anitre o altri uccelli come animali di compagnia, in persone con abitudini alimentari particolari, come il consumo di sangue d’anatra fresco o di volatili semicrudi.
L’interessamento di membri della stessa famiglia è stato descritto in almeno cinque occasioni, ma a tutt’oggi vi è un solo caso probabile di trasmissione interumana, più un paio di sospetti.
Va comunque sottolineato che non è stata provata la trasmissibilità in questi casi con le gocce di saliva aerosolizzate: nel caso probabile, la trasmissione bambino-madre sarebbe stata causata dal contatto stretto prolungato.
Dal punto di vista clinico, a fianco della sintomatologia a carico dell’apparato respiratorio sono frequentemente segnalati sintomi gastroenterici, che sono invece rari o assenti nell’influenza A (le virosi respiratorie accompagnate da sindromi gastroenteriche di regola non sono, a differenza di quanto si crede, causate da virus influenzali).
È importante sottolineare che i casi umani osservati nelle diverse aree geografiche sono stati sostenuti dagli stessi ceppi riscontrati negli animali nell’area in questione. Non esiste, in altre parole, un ceppo “antropofilo” per eccellenza, e questo è un ulteriore elemento contro la possibilità di una rapida “umanizzazione” del virus.

Serbatoi dell’infezione


La circolazione dei virus influenzali A in uccelli selvatici (soprattutto anatidi e altri uccelli acquatici) e domestici è certamente storia vecchia. Nei polli d’allevamento sono state documentate epidemie di influenza da più di cent’anni: per la precisione la prima segnalazione storicamente documentata è la peste dei polli descritta proprio in Italia nel 1878.
Gli animali selvatici sono il serbatoio di virus che possono in seguito colpire uccelli allevati o mammiferi. È stato documentato che il virus della spagnola circolava in uccelli acquatici selvatici prima del 1918: ne abbiamo la certezza poiché un esemplare di Branta bernicla, un’oca selvatica, catturata nel 1917 e conservata in formalina in un museo, è risultato portatore del virus.
I virus influenzali che circolano in uccelli “liberi” sono di regola a “bassa patogenicità”. Alcuni ceppi, e tra questi quelli appartenenti ai sottotipi H5 o H7, possono divenire altamente patogeni in seguito a mutazioni (per esempio quelle che comprendono l’introduzione di residui amminoacidi basici nel sito di clivaggio HAO).
È un fatto che le epidemie aviarie da H5 o H7 sono in aumento dal 1994, e che l’ultima epidemia da H5N1 ha coinvolto almeno 14 Paesi in Asia e più recentemente nell’Europa dell’Est, presentando un’estensione e una gravità senza precedenti.
Se gli uccelli selvatici sono il serbatoio dell’infezione, gli animali allevati, specie se in condizioni di sovraffollamento, possono essere un involontario laboratorio per lo sviluppo di nuovi ceppi ad alta patogenicità, come è stato documentato nel 1993-94 negli USA in corso di un’epizoozia causata da un H5N2. L’alta patogenicità si associa di regola a breve incubazione della malattia e rapido decesso dell’animale colpito, e pertanto costituisce un fattore limitante alla diffusione a distanza della malattia. È peraltro evidente che questo non basta a bloccarla.
Viene di fatto da chiedersi se esistono una o più specie relativamente resistenti all’infezione, in grado cioè di infettarsi, ma di sopravvivere più a lungo, diffondendo più facilmente la malattia. Il problema è attualmente allo studio. È un dato di fatto che animali infettati sono stati recentemente individuati in aree assai lontane da quelle in cui si sono sviluppate epizoozie in volatili domestici negli ultimi due anni. Qualcuno suggerisce che questo sia dovuto all’attivazione e all’affinarsi dei sistemi di sorveglianza, ipotizzando che non si possa escludere che ciò sia avvenuto anche negli anni scorsi, senza causare gravi conseguenze. Va comunque riconosciuto che il protrarsi della circolazione di ceppi ad alta patogenicità rappresenta un rischio per la loro ulteriore diffusione anche a distanza. Non tutte le specie aviarie sono comunque colpite allo stesso modo.
Sembra per esempio che piccioni e colombi siano relativamente resistenti, anche se H5N1 è stato isolato in almeno un caso in Columba livia (il piccione viaggiatore). Anche i passeri sembrano potere essere interessati, anche se pare che né passeri, né piccioni contribuiscano significativamente alla diffusione dell’infezione.
Nel caso si presentasse un nuovo virus dell’influenza “umanizzato”, un periodo di latenza per l’allestimento e la distribuzione di quantitativi di vaccino sufficienti per una premunizione di massa deve comunque essere tenuto in conto, e sarà tanto più breve quanto più le autorità sanitarie e i governi sapranno organizzarsi.
Quando la nuova pandemia si presenterà, quale che sia il virus implicato (vale la pena di ricordare che non necessariamente sarà N5H1) è prevedibile che si manifesti una prima “ondata” di casi non prevenibili. Nella malaugurata ipotesi in cui l’agente della futura epidemia fosse altamente patogeno (come nel caso del ceppo della “spagnola”) disporre di farmaci antivirali attivi sia nella prevenzione negli esposti, sia nel trattamento dei colpiti potrà fare la differenza tra la possibilità di una gestione clinica efficace e il rimanifestarsi di fantasmi del passato.

Farmaci attivi o potenzialmente attivi contro l’influenza A


In rapida sintesi, i farmaci attivi o potenzialmente attivi contro l’influenza A sono gli adamantani, gli inibitori della neuramidasi e forse alcuni analoghi purinici.
Il ruolo degli adamantani sembra assai limitato: i pochi casi trattati durante l’epidemia da H5N1 di Hong Kong del 1997 non consentono di trarre conclusioni, mentre in vitro i ceppi sia “umani” sia aviari isolati in Thailandia e in Vietnam nel 2004 sono risultati in vitro invariabilmente resistenti all’amantadina.
Entrambi gli inibitori della neuramidasi (oseltamivir e zanamivir) sono risultati efficaci, se usati tempestivamente, nel trattamento dei casi “umani” di infezione da H5N1. Tra i due, oseltamivir, che può essere assunto per via orale, sembra il più maneggevole. Lo sviluppo di resistenza a entrambi i farmaci durante il trattamento è stato documentato. Recentemente Mai Le e coll (Nature 2005, 437: 1108) hanno descritto, in una paziente vietnamita che aveva ricevuto profilassi e successivamente terapia con oseltamivir (in seguito a possibile esposizione e successiva infezione per avere assistito il fratello) la presenza di ceppi virali resistenti a oseltamivir, ma ancora sensibili a zanamivir.
Dati preliminari in animali da esperimento suggeriscono inoltre che la viramidina, un derivato della ribavirina, possa ricoprire un ruolo contro H5N1 meritevole di ulteriori verifiche.

Problematiche della diagnosi


Il problema dell’accuratezza e tempestività della diagnosi può essere risolto mediante tecniche di amplificazione genica: le opportune metodiche sono state già sviluppate (Yuen et al. Lancet 1998; 467-471; Enders et al. Emerg Infect Dis 2005; 5: 20).
Poiché le attuali necessità si limitano alla valutazione dello stato di salute di soggetti che risultassero esposti ad animali malati, queste tecniche, anche se attuabili solo in alcuni centri specializzati, sono da considerarsi sufficienti. L’allestimento di metodiche per la diagnosi rapida al letto del paziente è oggetto dell’attenzione di vari laboratori. Il problema si era già posto per la SARS e ha subìto un calo d’attenzione per l’esaurirsi dell’epidemia.
Nella pratica corrente, la diagnosi di influenza viene attuata nella stragrande maggioranza dei casi per presunzione, in base alla compatibilità clinica ed epidemiologica. L’inverno in corso non sarà diverso dai precedenti e non richiederà l’uso di nuove tecniche diagnostiche particolari.

“Are we ready?”


In chiusura, alcune considerazioni sulla domanda che ricorre da vari anni su riviste scientifiche e giornali d’opinione: “Are we ready?” Siamo pronti ad affrontare una nuova pandemia influenzale?
La pandemia del 1918, la famosa “spagnola”, fu direttamente responsabile di non meno di 20 e probabilmente di più di 40 milioni di morti. Rispetto al 1918, le analogie si fermano alla circolazione, ora come allora, di ceppi di virus influenzale A, altamente patogeni e non, tra gli uccelli selvatici e domestici. Non abbiamo più guerra e carestia in Europa, ma abbiamo un pianeta molto più affollato e mezzi di trasporto in grado di disseminare infezioni a trasmissione aerea in poche ore in tutto il mondo. Abbiamo, però, tecnologie farmaceutiche e un armamentario terapeutico nemmeno paragonabili a quelli di novant’anni fa e conosciamo i potenziali progenitori aviari dell’agente della prossima pandemia umana. Disponiamo pertanto delle competenze necessarie per allestire i presidi di contenimento della pandemia. Il punto chiave è sapere intervenire in via preventiva ove il problema si genera, evitando che sistemi di allevamento incongrui fungano da amplificatore per la generazione di ceppi ad alta patogenicità e da ponte per “l’umanizzazione” degli stessi.
Un problema a molte facce, cui concorrono politiche governative, intenti speculativi di privati, ma anche, e forse soprattutto, la povertà e l’arretratezza di ampie aree del pianeta, in cui un modo di allevare “pericoloso” è condizione necessaria per la sussistenza.
Forse non è una forzatura concludere che la lotta contro l’influenza, come la lotta contro l’AIDS, la tubercolosi, la malaria, è anche, se non in primo luogo, lotta alla povertà e all’arretratezza.

I dati epidemiologici contenuti nell’articolo sono aggiornati al 10 gennaio 2006