
M.D.
numero 4, 8 febbraio 2006
Clinica
Chi cura la sindrome metabolica? La pandemia
di un paradosso
di Giuseppe Maso, Medico di famiglia, Venezia,
Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia, Università
di Udine
La definizione di sindrome metabolica proposta dall’International
Diabetes Federation nel 2005 potrebbe essere riduttiva, se a
questa non farà seguito una visione che comprenda anche
ambiti socio-culturali e non solo prettamente clinici.
Per i principi fondamentali che sono alla base della medicina
di famiglia, essa si configura come il luogo di elezione per
la gestione complessiva della sindrome
Il
14 aprile 2005, a Berlino, con una conferenza stampa, l’International
Diabetes Federation (IDF) ha lanciato la definizione universale
della sindrome metabolica (Worldwide Definition of the Metabolic
Syndrome)1 (tabella 1). La nuova definizione
vuole fornire degli strumenti atti a identificare rapidamente
tutti i soggetti a rischio di attacco cardiaco, diabete, ictus
in ogni nazione e per ogni gruppo etnico.
L’IDF infatti afferma che un quarto degli adulti del mondo
avrebbe la sindrome metabolica e che coloro che presentano questo
quadro clinico hanno il doppio di possibilità di morire
(e il triplo di soffrire) per attacco cardiaco o ictus rispetto
alla popolazione che ne è esente.
Il pre-requisito per la diagnosi è l’obesità
centrale: oggi non si può parlare di sindrome metabolica
in sua mancanza.
Sono stati posti in evidenza, oltre a quelli presenti nella
definizione, anche altri parametri che sembrano essere correlati
a questa sindrome, che dovrebbero essere tenuti presenti nei
protocolli di ricerca: distribuzione del grasso corporeo,
dislipidemia aterogenica, alterazioni glicemiche, alterazioni
vascolari, stato pro-infiammatorio e pro-trombotico e fattori
ormonali (tabella 2).
Una
volta posta la diagnosi, appunto per ridurre il rischio di malattie
cardiovascolari e di diabete, la gestione e la terapia della
sindrome dovrebbero essere aggressivi. Dovrebbe essere valutato
attentamente lo stato cardiovascolare e dovrebbero essere messi
in atto interventi primari ed eventualmente interventi secondari.
I primi riguardano la correzione dello stile di vita e in particolare
includono: moderata restrizione calorica, moderato incremento
dell’attività fisica e cambio nella composizione
della dieta.
Gli interventi secondari, da mettere in atto quando i primi
non sono stati sufficienti, riguardano l’intervento farmacologico
sui singoli componenti della sindrome. Si sottolinea che la
sindrome non può essere trattata come un’unità,
in quanto non si conosce il meccanismo patogenetico unitario
che dovrebbe esserne alla base.
L’IDF consiglia quindi di trattare la dislipidemia aterogenetica
(fibrati e statine), l’ipertensione (ACE-inibitori e bloccanti
i recettori dell’angiotensina o altri antipertensivi),
l’insulino-resistenza e l’iperglicemia (metformina,
tiazolidinedioni, acarbose) e l’obesità (orlistat).
La medicina di famiglia come ambito ideale
In questo modo la sindrome metabolica si configura come l’esempio
ideale di problema da trattare nell’ambito della medicina
di famiglia.
La diagnosi è semplicissima: bastano un metro a nastro
da sartoria, uno sfigmomanometro e alcuni esami semplicissimi.
Anche i principi fondamentali della nostra disciplina dovrebbero
stare alla base del nostro farsi carico con eccellenza della
sindrome: continuità assistenziale, globalità,
osservazione contemporanea di più patologie, orientamento
alla famiglia, collaborazione e rapporto personale sono infatti
alla base della gestione proprio di questo tipo di problematiche.
Farsi carico della sindrome metabolica significa mettere in
atto alcune procedure2,3 che sono indispensabili
per ottenere dei risultati. Esse sono:
1. Informare
2. Diagnosticare
3. Definire gli obiettivi
4. Educare
5. Counselling
6. Decidere la terapia e programmare il follow up.
1 Informare
È fondamentale che il paziente comprenda perfettamente
la natura della sua malattia. Il fatto che egli non comprenda
appieno la sua situazione potrebbe indurlo a sottovalutarla
o a sopravalutarla. Tutti i medici di famiglia sanno bene quanto
spesso venga sminuita una condizione patologica con pochi sintomi
soggettivi o quanto spesso la diagnosi di una malattia cronica
porti a un senso di frustrazione o a uno stato di depressione.
La corretta informazione è essenziale per la compliance
e perché possano essere poste le basi per un trattamento
ottimale. Il paziente e la sua famiglia devono essere perfettamente
al corrente che un corretto trattamento può effettivamente
scongiurare la comparsa di eventi patologici importanti. Un
buon progetto di cura dipende quindi dalla partecipazione del
paziente, dai suoi rapporti con il team di cura e dall’aderenza
al protocollo che insieme hanno concordato. La conoscenza del
paziente, la continuità assistenziale e l’approccio
bio-psico-sociale fanno della medicina di famiglia il luogo
ideale per affrontare questa patologia.
2 Diagnosticare
La maggior parte delle informazioni per la diagnosi sono, di
solito, presenti nel database del paziente, per cui la diagnosi
è semplice ed eseguibile nel nostro studio.
3 Definire gli obiettivi
Gli obiettivi terapeutici che intendiamo raggiungere devono
essere ben chiari fino dall’inizio e devono essere formulati
dopo avere discusso un piano terapeutico individuale e avere
creato per questo una forte alleanza tra il paziente, la sua
famiglia, il medico, l’infermiera e ogni altro componente
del team delle cure primarie.
Ogni medico e ogni infermiera sanno bene quali sono le potenzialità
di questa alleanza e sanno anche quali sono le potenzialità
del paziente che molto spesso è conosciuto da anni. Il
piano va personalizzato perché vi sono differenze individuali
riguardo il rischio di ipoglicemia, l’aumento di peso o
altri effetti collaterali.
Dobbiamo ricordare che il paziente e la sua famiglia sono
un livello di cura importante tanto quanto quello del team medico
e dobbiamo essere consci che gli obiettivi non saranno raggiunti
se non saranno condivisi. L’ideale sarebbe che il paziente
stesso e la sua famiglia diventassero effettivamente parte integrante
del team che si fa carico della cura.
4 Educare
Molto probabilmente l’educazione del paziente è
l’aspetto più importante del piano terapeutico.
Questa fase sarà determinante per il raggiungimento dei
nostri obiettivi e sarà la procedura che ci permetterà
di delegare al paziente la gestione della sua malattia rendendolo
responsabile (assieme a noi) delle scelte terapeutiche.
È essenziale programmare degli incontri con il paziente
e la sua famiglia con l’unico scopo di insegnargli l’autocontrollo,
la tecnica di assunzione della terapia orale e dell’insulina.
Questi incontri dovrebbero stimolare una nuova coscienza di
benessere e fare in modo che il paziente reimposti il suo stile
di vita e ne riconsideri la qualità. Le preferenze del
paziente, le sue potenzialità e capacità, il livello
di comprensione della malattia e la compliance vanno tenute
sempre in debito conto.
La sindrome metabolica può essere esempio di patologia
in cui le responsabilità di cura vengono condivise.
5 Counselling
• Cosa non accetti di questa malattia?
• Che cosa ti spaventa?
• In cosa ti senti maggiormente limitato?
• Quali pensi siano i problemi attuali collegati alla sindrome
metabolica?
• Cosa non comprendi?
• Quali, fra tutte le raccomandazioni, sono per te più
difficili da seguire?
• Quali le più facili?
• Come pensi sia meglio per te ottenere un buon controllo
dei parametri?
• Come definiresti il tuo benessere?
• Quale tipo di aiuto vorresti?
6 Decidere la terapia
• Corretta alimentazione
• Attività fisica
• Fibrati e statine
• Antipertensivi
• Farmaci che riducono la resistenza insulinica.
Il problema risulta essere talmente vasto che per ovvi motivi
non possono gestirlo i cardiologi, i diabetologi o gli endocrinologi.
La medicina di famiglia deve obbligatoriamente farsene carico.
L’efficacia di un livello viene confusa spesso con la sua
efficienza. L’efficienza di un livello può essere
eccellente, ma può risultare in uno spreco di risorse
economiche, intellettuali, tecnologiche e umane se andiamo a
verificare l’impatto reale sulla salute dei singoli e della
popolazione.
Bisogna ricordare che non sono le necessità delle discipline
o della burocrazia che definiscono l’organizzazione e i
livelli d’assistenza, ma sono sempre e solo i bisogni dei
singoli e della comunità a definire i confini, le funzioni,
i compiti e le abilità di ciascuna disciplina sanitaria.
Dovrà essere fatta un’analisi delle aspettative
di ciascuna disciplina medica, dovranno essere definiti i punti
di collaborazione, ottimizzate le risorse, incentivate competenze
e abilità e disincentivata l’assunzione di funzioni
e ruoli d’altrui competenza.
La frammentazione fra le varie discipline può essere
eliminata condividendo i valori di qualità, equità,
pertinenza e costo-efficacia. Il concetto di sussidiarietà
dovrebbe essere sempre applicato: quando possibile, l’atto
medico dovrebbe essere espletato al più basso e largo
livello di cura4.
Insomma la medicina di famiglia, considerate le dimensioni del
problema, è il luogo ideale dove affrontare questa sindrome.
La medicina di famiglia è comunque il luogo delle cose
pratiche, il posto dove il problema essenziale non è
mai parcellare e il globale è sempre essenziale, il posto
dove si applicano su vasta scala e contemporaneamente i risultati
scientifici e tecnologici delle discipline specialistiche e,
proprio per questi motivi, il posto dove bisogna riassumere,
semplificare, confrontare e dare un valore ai molteplici interventi.
Una sindrome che arriva da lontano
Noi medici pratici abbiamo pertanto bisogno di metabolizzare
la sindrome metabolica, abbiamo bisogno di verificarne la digeribilità.
Dobbiamo quindi studiarne la composizione, la sua costruzione
e la sua storia.
-
Nel
1761 G. Battista Morgagni nel De sedibus et causis morborumno
per anatomen indagatis descrisse, probabilmente per primo,
l’ipertensione familiare5,6.
-
Nel
1923 E. Kilin descrisse un quadro caratterizzato da ipertensione,
iperglicemia e gotta7.
‰ Nel 1967 Avogaro, Crepaldi, Enzi e Tiengo descrissero
l’associazione di iperlipemia, diabete mellito e obesità
di medio grado. Essi sottolinearono chiaramente il ruolo dell’insulina
in questa sindrome8.
-
Nel
1981 M. Hanefeld e W. Leonhardt parlarono di “das metabolische
syndrom”9.
-
Nel
1985 Michaela Modan e collaboratori enfatizzarono ancora il
ruolo della iperinsulinemia10.
-
Nel
1988 Gerald Reaven parlò di una sindrome (che lui chiama
sindrome X) in cui l’insulino-resistenza era la causa
di intolleranza glucidica, iperinsulinemia, VLDL aumentate,
trigliceridi aumentati, HDL colesterolo diminuito e ipertensione11.
-
Nel
1989 NM. Kaplan identificò quello che definì
il “quartetto mortale”: obesità centrale,
ipertensione, diabete e ipertrigliceridemia12.
-
Nel
1991 P. Zimmet suggerì di includere formalmente l’obesità
centrale nella sindrome e di sostituire il termine “sindrome
X” con “sindrome da insulino-resistenza” o
meglio con “sindrome metabolica”13.
‰ Nel 1998 Alberti e Zimmet diedero una definizione operativa
alla sindrome: diabete o intolleranza glucidica o insulino-resistenza
sono fattori essenziali e vi sono altri quattro fattori (la
presenza di almeno due di questi ponevano la diagnosi): ipertensione
(>160/90 mmHg), microalbuminuria (>20 mg/min), obesità
centrale (BMI >30 kg/m2) e dislipidemia (trigliceridi >150
mg/dL e/o HDL <35 mg/dL per i maschi, HDL <39 mg/dL
per le femmine)14.
Successivamente molte altre anormalità sono state associate
con la sindrome, come le alterazioni della fibrinolisi e della
coagulazione e varie anormalità del quadro lipidico.
A supporto dell’esistenza della sindrome metabolica vi
sono alcuni studi epidemiologici.
-
Il
San Antonio Heart Study diretto da Stern (1991): vennero
considerati obesità, diabete, ipertensione, ipertrigliceridemia
e ipercolesterolemia su una popolazione di 2.930 soggetti.
Ciascuna condizione aveva poche possibilità di esistere
isolata (dall’1% per l’ipertensione al 1.7% per
l’ipercolesterolemia); faceva, in qualche modo, eccezione
l’obesità che si presentava da sola nel 29% dei
casi15.
-
Il
Paris Prospective Study (1991) considerò le cause di
morte in un follow up di 15 anni. L’iperinsulinemia
risultò essere un fattore di rischio cardiovascolare16.
-
Nel
1992 uno studio di Haffner evidenziò come l’iperinsulinemia
fosse un fattore di rischio per disordini metabolici multipli17.
-
Il
Botnia Study del 2001: il rischio di eventi cardiovascolari
aumenta nei soggetti con sindrome metabolica. Il componente
della sindrome più legato al rischio si è dimostrato
proprio uno dei più discussi: la microalbuminuria18.
Le
aree grigie secondo l’IDF
Secondo l’International Diabetes Federation rimane ancora
del lavoro da fare e vi sono ancora alcune aree su cui bisogna
fare ricerca:
-
l’eziologia della sindrome;
-
la
definizione migliore e più predittiva;
-
come
l’ipertensione sia legata agli altri componenti;
-
la
relazione fra i vari componenti e gli eventi cardiovascolari;
-
la
relazione fra le misure semplici e complesse dei componenti
e gli eventi clinici;
-
il
vero impatto del trattamento di tutti i componenti sul rischio
cardiovascolare;
-
la
migliore identificazione dei pazienti con sindrome metabolica
ad alto rischio nelle varie popolazioni.
Riassumendo
ci troviamo di fronte a una definizione incerta (da rivedere
a seconda degli esperti) di una sindrome che non è composta
di classici segni e sintomi riferibili a un’unica causa,
ma rappresenta la somma di un certo numero di fattori di rischio
che a sua volta va a costituire un nuovo unico fattore di rischio.
È quindi la sindrome metabolica una vera sindrome? Ci
troviamo realmente di fronte a una pandemia (tale è se
consideriamo i parametri per la diagnosi) e si sta profilando
un futuro straripante di eventi cardiovascolari e diabete? Abbiamo
creato una nuova malattia? Abbiamo cercato un problema perché
disponiamo di soluzioni ancora orfane? Si tratta di un artefatto?
Riflessioni
Ci sono alcuni punti che hanno bisogno di essere messi maggiormente
in luce e che meritano tutta la nostra attenzione.
1 Il rapporto tra sovrappeso e malattie cardiovascolari
-
La
prevalenza dell’obesità negli Stati Uniti è
quasi raddoppiata dal 1980 negli adulti e triplicata nei bambini.
Ma anche se i decessi dovuti al diabete sono lievemente aumentati,
i previsti incrementi di mortalità per cardiopatie
e ictus non si sono concretizzati19.
-
Le
metanalisi di studi importanti eseguiti negli anni Settanta
e Novanta, dopo avere sottratto gli effetti di età,
razza, sesso, fumo e consumo di alcol, hanno evidenziato come
gli americani adulti che rientrano nella categoria dei sovrappeso
abbiano minore rischio di morte prematura rispetto ai normopeso20.
-
Tutti
concordano sul fatto che l’obesità grave aumenta
estremamente il rischio di numerose malattie, ma questa forma
di obesità, in cui il BMI supera 40 kg/m2, colpisce
1 su 12 dei sovrappeso20.
-
Fatta
eccezione per il diabete, il rischio di eventi cardiovascolari
è diminuito considerevolmente negli ultimi 40 anni
per tutti i gruppi di BMI21.
-
La
composizione della dieta, la forma fisica, i livelli di stress,
il reddito, la storia familiare e la localizzazione dell’adipe
nel corpo non sono che alcuni dei cento fattori di rischio
causali “indipendenti” per le malattie cardiovascolari
identificati nella letteratura medica. Gli studi osservazionali
che associano l’obesità alle cardiopatie li ignorano
quasi tutti, ma così facendo assegnano le rispettive
funzioni causali all’obesità20.
2
La resistenza insulinica è causa o effetto?
-
In
tutti gli anni Novanta non sembra aumentata la prevalenza
di diabete e pre-diabete nonostante il drastico aumento di
obesità20.
-
Uno
studio dimostra che le persone con elevato cortisolo sierico
(causato da stress cronico) sviluppano obesità addominale,
insulino-resistenza e anormalità lipidiche22.
3
Il ruolo dell’infiammazione
-
Le
malattie vascolari e l’aterosclerosi in particolare sono
una risposta fenotipica multifattoriale, ma agenti infettivi
come virus, Chlamydia, Helicobacter, Rickettsieae, micobatteri
e altri agenti sono stati implicati spesso nella loro fisiopatologia23.
-
Viene
sempre più preso in considerazione il ruolo di monociti/macrofagi
e linfociti23.
-
L’aterosclerosi
potrebbe essere in parte una malattia autoimmune scatenata
da lipoproteine endogene modificate; sono presenti nel plasma
in larga quantità autoanticorpi prodotti da linfociti
T specifici per le LDL della placca24.
-
L’attuale
definizione di sindrome metabolica è basata sull’induzione,
su osservazioni ripetute (induzione su enumerazione) e su
eliminazione di altre teorie (che sono però infinite).
È un’inferenza induttiva e, come afferma Popper,
le inferenze induttive sono logicamente invalide. “Né
gli animali né gli uomini usano una procedura come
l’induzione, o qualche argomentazione basata sulla ripetizione
di esempi. La credenza che noi facciamo uso dell’induzione
è semplicemente un errore. È un’illusione
ottica”. Con tutto ciò non si vuole affatto affermare
che l’osservazione o l’esperimento non abbiano una
funzione decisiva. Si tratta di affermare che “la funzione
decisiva dell’osservazione e dell’esperimento nella
scienza è critica. C’è sempre la possibilità
di errori sistematici, ma essi costituiscono certamente una
parte importante della discussione critica delle teorie scientifiche”26.
-
Abbiamo
l’impressione che la sindrome metabolica, così
come è definita dall’International Diabetes Federation,
ritragga in maniera sfuocata il paziente a cui, noi medici
di famiglia, siamo soliti consigliare di cambiare stile di
vita. Un’immagine più a fuoco non può che
essere data da un obiettivo che comprenda nel suo angolo di
visuale anche molti altri fattori che non esistono nella definizione
dell’IDF. Essi sono lo stato sociale, il grado di istruzione,
l’ambiente, l’età ecc.
-
I
cambiamenti successivi nella definizione impediscono corretti
confronti tra studi e di fatto limitano molto gli studi retrospettivi
su coorti di popolazione.
-
La
definizione ha comunque il merito di mettere in evidenza il
problema e quello di sensibilizzare i medici al rischio cardiovascolare.
-
L’approccio
alla sindrome (con la definizione IDF o con un’altra)
deve essere sempre bio-psico-sociale, perché si tratta
di una sindrome che interessa la mente (cultura e credenze),
l’anima (pulsioni e sentimenti) e la società (famiglia,
alimenti, rituali, industria, pubblicità, barriere
ambientali al trattamento).
-
Il
luogo di cura è nell’ambito delle cure primarie
e la medicina di famiglia è il posto di elezione. Essa
deve avere a disposizione la formazione e gli strumenti adeguati
(compresi i farmaci) per affrontare il problema.
-
È ovvio che è legata alla disponibilità
di calorie e che quindi si tratta di un problema socio-culturale
che va affrontato anche con strumenti non medici.
-
È obbligatoria la sorveglianza su strumentalizzazioni
della sindrome che inducano ad abitudini errate o ad assunzione
di sostanze la cui efficacia non sia fondata su evidenze.
-
La
ricerca è fondamentale e la medicina di famiglia
può portare sicuramente un contributo originale in
questo campo.
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