M.D. numero 5, 15 febbraio 2006

Dialoghi clinici
Diagnosi e terapia del paziente con osteoporosi
Medicina Generale a cura di: Gian Paolo Andreoletti, Medico di medicina generale, Vertova (BG)
Specialistica a cura di: Luigi Sinigaglia e Silvia Casari, Dipartimento di Reumatologia UO Malattie Osteometaboliche, Istituto Ortopedico Gaetano Pini, Milano

La diversità tra medicina generale e specialistica può essere fattore di arricchimento della pratica medica, se a prevalere è il momento dialogico, all’insegna della complementarietà, focalizzata sulle esigenze concrete che la gestione di una problematica fa emergere nella quotidianità.
M.D. propone, di volta in volta, un confronto tra le due discipline, fatto di domande precise e di risposte condivise.

L’osteoporosi rappresenta la patologia ossea di più frequente riscontro in età avanzata. Si calcola che l’80% dei soggetti con osteoporosi sia costituito da donne in post-menopausa: il 30-35% delle pazienti manifesta dopo la fine dell’età fertile un quadro di osteoporosi clinicamente significativa. Se consideriamo che rappresenta un fattore di rischio per fratture (in particolare delle vertebre, dell’avambraccio e del collo femorale) e che queste sono gravate da un elevato tasso di invalidità permanente e di mortalità, possiamo intuire come questa patologia abbia assunto, con l’invecchiamento generale della popolazione, i connotati di un vero e proprio problema sociale.

Quali esami di laboratorio possono essere indicativi della presenza di osteoporosi?
L’osteoporosi rappresenta la patologia ossea di più frequente riscontro in età avanzata. Si calcola che l’80% dei soggetti con osteoporosi sia costituito da donne in post-menopausa: il 30-35% delle pazienti manifesta dopo la fine dell’età fertile un quadro di osteoporosi clinicamente significativa. Se consideriamo che rappresenta un fattore di rischio per fratture (in particolare delle vertebre, dell’avambraccio e del collo femorale) e che queste sono gravate da un elevato tasso di invalidità permanente e di mortalità, possiamo intuire come questa patologia abbia assunto, con l’invecchiamento generale della popolazione, i connotati di un vero e proprio problema sociale.

Quali esami di laboratorio possono essere indicativi della presenza di osteoporosi?
Gli esami di laboratorio in corso di osteoporosi primitiva (post-menopausale e senile) sono in genere nei limiti della norma. In particolare sono normali gli accertamenti relativi al metabolismo fosfo-calcico, compresi calcemia, fosforemia e fosfatasi alcalina. Tuttavia, il laboratorio riveste un’importanza diagnostica fondamentale allo scopo di escludere le cause di osteoporosi secondaria o altre malattie in grado di determinare una demineralizzazione ossea.
Va infatti ricordato che la densitometria non consente mai una diagnosi di osteoporosi, ma è in grado soltanto di testimoniare l’esistenza di una demineralizzazione scheletrica. Di fronte a un paziente con valori di densità minerale ossea ridotta è quindi imperativo richiedere una serie di esami di primo livello che devono essere eseguiti in tutti i casi prima di intraprendere qualsivoglia terapia. Questo primo gruppo di esami è poco costoso e alla portata di qualunque laboratorio. Gli accertamenti di primo livello comprendono emocromo, elettroforesi sieroproteica, calcemia, fosforemia, fosfatasi alcalina, VES e calciuria sulle urine delle 24 ore. Solo in caso di alterazione di uno o più di tali accertamenti sono indicati esami più approfonditi finalizzati a evidenziare cause di osteoporosi secondaria o di una eventuale osteomalacia.
I cosiddetti marker di turnover scheletrico trovano raramente indicazione nella pratica clinica quotidiana, non rivestono alcun significato diagnostico e restano uno strumento utile solo all’interno di trial clinici controllati o a scopo di ricerca.

Nella prescrizione di una densitometria quale metodica di indagine va preferita?
Attualmente l’indagine di riferimento è rappresentata dalla densitometria a raggi X (DXA), che può essere eseguita in varie sedi corporee e che viene di preferenza valutata a livello della colonna lombare e del femore prossimale. Si tratta dell’indagine di riferimento sia perché dotata di buona precisione e di sufficiente accuratezza sia perché consente un’ottima predizione del rischio di frattura. L’OMS basa la diagnosi di osteoporosi su un parametro ricavato con questa metodica. Il carico attinico per il paziente è del tutto trascurabile. L’indagine tuttavia non è esente da problemi pratici, rappresentati soprattutto da una possibile sovrastima dei valori di densità a livello della colonna lombare in presenza di manifestazioni produttive osteofitosiche legate alla spondiloartrosi.
Per questo motivo la densitometria lombare è indicata preferenzialmente nei soggetti relativamente giovani, mentre dopo i 65 anni di età, quando le manifestazioni spondiloartrosiche sono più frequenti, è preferibile misurare la densità ossea a livello del femore prossimale. La misurazione al femore tuttavia ha una precisione inferiore, per cui rende più difficile il confronto dell’esame in tempi diversi.
La DXA è attualmente la metodica di riferimento per valutare il rischio di frattura nel singolo paziente e sulla base dei dati pubblicati in studi longitudinali si può considerare che la riduzione di una deviazione standard dei valori rapportati a una popolazione di giovani adulti al picco di massa ossea (T-score) comporta all’incirca un raddoppio del rischio di frattura. La metodica che utilizza la Tomografia Assiale Computerizzata Quantitativa è dotata di buona accuratezza e ci fornisce indicazioni differenziate circa i valori di densità corticale e trabecolare. È tuttavia una metodica non ripetibile nel tempo stante l’elevata tossicità attinica e al momento non esistono dati convincenti circa la predittività del rischio fratturativo. Le metodiche a ultrasuoni sono tuttora in fase di studio. Accanto al vantaggio correlato all’assenza di esposizione del paziente a fonti radioattive e ai costi inferiori, queste metodiche comportano tuttavia ancora problemi interpretativi e al momento attuale non è possibile porre una diagnosi di osteoporosi sulla base del riscontro ultrasonografico. La riproducibilità di queste metodiche è inoltre ancora da considerarsi bassa, per cui non è raccomandato seguire clinicamente il paziente utilizzando il solo dato ultrasonografico.

A quale età va effettuata la prima densitometria ossea in una paziente asintomatica?

Teoricamente l’acquisizione del dato densitometrico dovrebbe essere eseguita in tutte le donne al momento della menopausa, in quanto una bassa densità ossea rappresenta al momento attuale la più importante informazione circa il rischio di frattura individuale. Gli studi di economia sanitaria hanno tuttavia confermato che uno screening esteso a tutta la popolazione a 50 anni di età non comporta in realtà vantaggi sostanziali in termini di costo-efficacia. Gli stessi studi hanno peraltro dimostrato che se l’esame viene eseguito all’età di 65 anni il rapporto costo-efficacia di uno screening di popolazione diviene positivo, per cui tutte le linee guida ad oggi pubblicate indicano la necessità di eseguire una densitometria in tutte le donne al sessantacinquesimo anno. Tale limite anagrafico deve naturalmente essere abbassato qualora siano presenti alcuni “forti fattori di rischio” per osteoporosi come la magrezza, una familiarità per fratture da fragilità scheletrica, l’esposizione a farmaci o a malattie note per causare un’osteoporosi secondaria, uno scarso apporto calcico e così via. Questi fattori di rischio consentono l’esecuzione di un esame densitometrico prima dei 65 anni anche nel nostro Paese, anche se le regole di accesso alla densitometria variano da Regione a Regione.

Con quale frequenza va ripetuta la densitometria ossea in un soggetto con osteoporosi?

L’intervallo tra due determinazioni densitometriche necessario per cogliere una variazione clinicamente significativa dipende dalla perdita attesa di densità minerale e dal coefficiente di variazione della metodica utilizzata. In un soggetto con osteoporosi primitiva, quando si utilizzi la metodica DXA il cui coefficiente di variazione in vivo è intorno all’1%, questo intervallo non è inferiore ai 18 mesi. Non esiste alcun motivo valido per eseguire una densitometria 6-8 mesi dopo l’esame precedente. In pazienti ad elevato rischio di perdita di densità minerale (per esempio nei pazienti che iniziano un trattamento corticosteroideo a dosi elevate) l’esame densitometrico può essere ripetuto a intervalli più brevi, comunque mai inferiori ai 9-12 mesi.

Quale ruolo hanno dieta e attività fisica nella prevenzione e nella terapia dell’osteoporosi?

Un adeguato apporto in calcio mediante la dieta è di fondamentale importanza per mantenere una condizione scheletrica ottimale e questo obiettivo deve essere considerato di primaria importanza per qualsivoglia strategia terapeutica. Il calcio dietetico è contenuto essenzialmente nei prodotti caseari (latte e derivati del latte), per cui se il paziente riferisce intolleranza a questi alimenti è assai verosimile che la sua dieta abbia un contenuto in calcio insufficiente. Di fronte al paziente è sempre consigliabile puntare su una normalizzazione dell’assunzione di calcio tramite la dieta, in quanto il calcio contenuto negli alimenti viene assorbito molto più efficacemente dall’intestino rispetto al calcio farmacologico. Una dieta povera in calcio fin dall’infanzia può essere responsabile di un ridotto picco di massa ossea nell’età adulta, mentre le errate abitudini alimentari dopo la menopausa possono comportare un aumento del rischio di frattura e una riduzione dell’efficacia dei trattamenti farmacologici comunemente utilizzati per il trattamento della malattia. L’abitudine più errata consiste nel sospendere l’uso di latte e latticini a seguito del riscontro di un’ipercolesterolemia, dimenticando che nei prodotti magri che si trovano in commercio la quantità di calcio è esattamente uguale a quella contenuta nei prodotti interi. È stato dimostrato in gruppi di giovani donne in età universitaria che a parità di introito calcico l’attività fisica comporta un aumento della densità minerale ossea con conseguente aumento del picco di massa ossea. Nelle donne in menopausa e nei soggetti anziani diversi studi hanno dimostrato che un programma di esercizio fisico quotidiano eseguito in carico consente di migliorare la densità minerale già dopo sei mesi. D’altra parte la sedentarietà e il confinamento nell’ambiente domestico comportano un rischio aumentato di andare incontro a frattura del femore prossimale e rappresentano altresì un fattore di predisposizione alle complicanze più comuni, quali la perdita dell’indipendenza o la riduzione della spettanza di vita.
La terapia con calcio e vitamina D può costituire un trattamento sufficiente in un paziente con osteoporosi?
Calcio e vitamina D rappresentano la base farmacologica di qualsivoglia strategia preventiva e terapeutica per l’osteoporosi. Tutti i trial clinici controllati degli ultimi anni che hanno dimostrato come alcuni agenti farmacologici siano in grado di ridurre efficacemente e significativamente il rischio di frattura vertebrale e femorale sono stati condotti in associazione a una supplementazione calcio-vitaminica. Calcio e vitamina D sono probabilmente più efficaci nel paziente anziano quando si verificano alcune concomitanze critiche: il soggetto anziano presenta un ridotto assorbimento intestinale di calcio, solitamente limita l’impiego di alimenti a elevato contenuto in calcio e spesso presenta un ridotto patrimonio endogeno in vitamina D, in quanto si espone poco alla luce del sole. È inoltre stato dimostrato che la capacità di fotoconversione della cute del soggetto anziano è significativamente inferiore a quella del soggetto giovane a parità di esposizione al sole. Queste considerazioni fisiopatologiche, unitamente al fatto che nel nostro Paese non esistono in commercio alimenti arricchiti in vitamina D, fa sì che una proporzione notevole di soggetti con età >65 anni sia carente in vitamina D e quindi abbia necessità di una supplementazione. Dati recenti tuttavia hanno sottolineato come anche in soggetti più giovani in Italia frequentemente esistano livelli di vitamina D endogena inadeguati per un ottimale assorbimento intestinale di calcio. Su questa base si può affermare che la terapia calcio-vitaminica debba essere somministrata alla maggior parte dei pazienti con osteoporosi e possa essere evitata solo quando si sia certi dell’adozione di una dieta corretta e qualora si sia raggiunta la certezza di uno stato vitaminico adeguato, dopo avere saggiato le concentrazione endogena di 25 idrossi-colecalciferolo. Anche se esistono dati che dimostrano una riduzione del rischio di frattura femorale con la sola supplementazione calcio-vitaminica, va ricordato che queste stime si riferiscono solamente a pazienti molto anziani e istituzionalizzati, per cui la terapia con calcio e vitamina D al momento deve essere considerata essenziale, ma da sola non sufficiente per il trattamento dell’osteoporosi.

Quale ruolo hanno gli estrogeni e il raloxifene nella terapia dell’osteoporosi ?

Alcuni studi prospettici pubblicati di recente su casistiche estremamente numerose hanno definitivamente confermato che la terapia protratta con estrogeni determina un aumento significativo del rischio di tumore invasivo della mammella e di malattia cardiovascolare. Sulla base di queste acquisizioni attualmente la terapia con estrogeni (con o senza associazione con il progestinico) non rappresenta più un’opzione terapeutica per l’osteoporosi, anche se gli stessi studi hanno dimostrato per la prima volta che la terapia ormonale sostitutiva è effettivamente in grado di ridurre il rischio di frattura del collo del femore. La terapia ormonale resta indicata in caso di menopausa precoce e per il trattamento della sindrome climaterica, secondo la discrezione del ginecologo e sulla base della richiesta informata della paziente.
Il raloxifene, che è un modulatore selettivo del recettore estrogenico e si comporta similmente all’estrogeno a livello scheletrico, mentre è un antagonista estrogenico a livello del tessuto mammario e dell’endometrio, ha solo in parte ovviato a queste limitazioni. Il raloxifene è infatti in grado di ridurre significativamente il rischio di frattura vertebrale sia in soggetti senza fratture anamnestiche sia in donne con fratture prevalenti, ma non dimostra alcun effetto sulle fratture del collo del femore. È in generale un farmaco ben tollerato, anche se aumenta, similmente agli estrogeni, il rischio tromboembolico e può peggiorare la sindrome climaterica specie nelle donne in menopausa da poco tempo. Gli incrementi della densità minerale ossea sono assai modesti, non superiori al 3% all’anno.

Quali sono le indicazioni dei bisfosfonati nella terapia dell’osteoporosi?

I bisfosfonati, e in particolare i derivati aminici dei bisfosfonati (o aminobisfosfonati), sono le molecole più studiate nella terapia dell’osteoporosi. Alcuni grandi trial prospettici condotti negli anni Novanta hanno definitivamente dimostrato che gli aminobisfosfonati sono efficaci nel ridurre il rischio di frattura vertebrale ed extravertebrale nei soggetti con osteoporosi, sia in presenza di fratture sia in pazienti che non avevano mai avuto precedenti fratture. La riduzione del rischio fratturativo è dell’ordine del 40-50% a seconda del tipo di frattura e dell’aminobisfosfonato considerato. Questi risultati devono essere considerati molto importanti in quanto, grazie a questi studi, si è per la prima volta ottenuta la dimostrazione che è possibile ridurre le fratture da fragilità scheletrica mediante un trattamento farmacologico. Le indicazioni principali dell’alendronato e del risedronato, che sono i due aminobisfosfonati più studiati, sono quindi rappresentate dall’osteoporosi in generale e in particolare dall’osteoporosi in pazienti con fratture prevalenti (di vertebra o di femore) che devono essere considerati a elevatissimo rischio per nuove fratture da fragilità. L’indicazione in prevenzione primaria, in soggetti cioè con densità minerale normale o leggermente ridotta e senza fratture prevalenti, non è stata confermata da studi adeguati. Alendronato e risedronato sono inoltre indicati nella prevenzione e nella terapia dell’osteoporosi da glucocorticoidi e possono essere somministrati a tutti i pazienti che seguano un trattamento steroideo, a posologia pari a 5 mg al giorno di prednisone da almeno tre mesi, in associazione a una supplementazione con calcio e vitamina D. Infine l’alendronato è l’unico farmaco che trova indicazione nel trattamento dell’osteoporosi in soggetti di sesso maschile.
In generale la maggior parte delle forme di osteoporosi secondaria può essere trattata con aminobisfosfonati, anche se in questi casi la terapia di elezione è rappresentata dal trattamento delle cause scatenanti. Esistono in commercio preparati a base di bisfosfonati non aminati (o bisfosfonati di prima generazione) per i quali non esistono dati e definitivi circa la loro effettiva capacità di ridurre il rischio fratturativo.
Sarà di prossima commercializzazione un nuovo bisfosfonato, l’ibandronato, che prevede un regime di somministrazione per via orale una volta al mese. La monosomministrazione mensile dovrebbe offrire dei benefici in merito all’adesione terapeutica delle pazienti e alla tollerabilità gastroenterica.

Le calcitonine hanno ancora un ruolo nel trattamento dell’osteoporosi?

L’utilizzo della calcitonina nella terapia dell’osteoporosi risale agli anni ’70, quando le prerogative di efficacia per un farmaco nella terapia dell’osteoporosi si basavano unicamente sul riscontro densitometrico e non piuttosto sulla reale capacità di quell’agente farmacologico di ridurre il rischio di frattura. Dopo l’avvento degli aminobisfosfonati, in Europa l’impiego della calcitonina è stato progressivamente abbandonato. In America verso la fine degli anni ’90 è stato condotto uno studio policentrico controllato in doppio cieco contro placebo (studio Proof) che ha dimostrato per la prima volta che la calcitonina è in grado di ridurre significativamente l’incidenza di nuove fratture vertebrali. Questo studio è stato tuttavia ampiamente criticato, sia per la metodologia statistica applicata nella valutazione dei risultati, sia in quanto si raggiungeva una buona efficacia fratturativa soltanto mediante dosi intermedie, mentre i pazienti che utilizzavano dosaggi più elevati di ormone non risultavano protetti dalle fratture.
Al momento attuale si ritiene che l’avvento di farmaci molto più potenti, ben tollerati e sicuramente efficaci nel ridurre il rischio fratturativo abbia posto la calcitonina nettamente in secondo piano come agente terapeutico nell’osteoporosi.

Quali sono il meccanismo d’azione e le indicazioni del paratormone nel trattamento dell’osteoporosi?

A differenza degli aminobisfosfonati, che sono inibitori del riassorbimento osteoclastico, il paratormone (teriparatide) somministrato giornalmente per via sottocutanea dimostra un potente effetto di stimolazione della neoformazione osteoblastica. Questo effetto si traduce in un’aumentata neoapposizione ossea con aumento del volume trabecolare e incremento dello spessore dell’osso corticale. Questi effetti si sono tradotti in incrementi densitometrici assai significativi, almeno doppi alla colonna vertebrale rispetto a quelli ottenibili con gli aminobisfosfonati e in una riduzione di oltre il 60% di nuove fratture vertebrali in soggetti con fratture vertebrali prevalenti. Stanti l’elevato costo e la necessità di una somministrazione parenterale quotidiana, l’impiego del paratormone è oggi limitato a pazienti a elevatissimo rischio fratturativo che siano già stati per almeno un anno in terapia con un aminobisfosfonato o con raloxifene e che abbiano presentato una frattura da fragilità in corso di trattamento.

Quali sono il meccanismo d’azione e le indicazioni del ranelato di stronzio nel trattamento dell’osteoporosi?

Il ranelato di stronzio, farmaco di recente commercializzazione nel nostro Paese, è un sale organico dello stronzio, un elemento chimicamente correlato al calcio che possiede sia attività antiriassorbitiva sia proprietà anaboliche sull’osso. Dagli studi pubblicati il ranelato di stronzio modifica il turnover scheletrico sia aumentando i marcatori di neoformazione ossea sia riducendo i parametri di riassorbimento osteoclastico. Il farmaco dopo tre anni di trattamento riduce l’incidenza di fratture vertebrali del 40%, mentre mancano a tutt’oggi dati definitivi circa la sua efficacia nel ridurre l’incidenza di fratture in altri segmenti scheletrici.

Quali sono le cause più comuni di osteoporosi secondaria?
La causa più frequente di osteoporosi secondaria è di natura iatrogena e consegue all’impiego di corticosteroidi. Sappiamo oggi che bastano pochi mesi di terapia anche a dosaggi bassi per determinare una condizione di fragilità scheletrica e di conseguenza un aumento del rischio di frattura. Accanto all’osteoporosi metasteroidea, esistono numerose affezioni che possono indurre osteoporosi. Si tratta di malattie endocrine (per esempio ipertiroidismo, iperparatiroidismo, ipersurrenalismo e ipogonadismo), malattie reumatologiche (artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico), malattie dismetaboliche (emocromatosi, ipercalciuria idiopatica e diabete), malattie neoplastiche (per esempio il mieloma multiplo), malattie ematologiche (malattie emo e linfoproliferative, mastocitosi sistemica), malattie gastroenterologiche (come la malattia celiaca o le malattie infiammatorie intestinali croniche). Accanto a queste forme esistono numerosi farmaci in grado di determinare attraverso svariati meccanismi un’osteoporosi sistemica come la ciclosporina, i diuretici dell’ansa, alcuni chemioterapici, gli anticoagulanti e così via. In tutte queste condizioni l’osteoporosi può manifestarsi come complicanza di una malattia clinicamente nota oppure può essere la prima manifestazione clinica di una patologia ancora sconosciuta e divenire quindi una preziosa chiave diagnostica. In tutti i pazienti che presentano un’osteoporosi in giovane età o una massa ossea non correlata allo stato menopausale e/o all’età è quindi imperativo uno screening clinico, strumentale e di laboratorio alla ricerca di una causa in grado di determinare la condizione di osteoporosi. Ogni condizione osteopenizzante deve infatti essere trattata adeguatamente per evitare la comparsa di fratture che possono ulteriormente aggravare il decorso clinico della condizione di cui il paziente è portatore.