M.D. numero 10, 22 marzo 2006

Rassegna
Presente e futuro dei biomarcatori tumorali
di Emilio Bombardieri, Responsabile U.O. di Medicina Nucleare e Maria Grazia Daidone, Responsabile U.O. Ricerca Traslazionale, Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura Tumori, Milano

Sono disponibili diversi biomarcatori tumorali utili per valutare l’andamento di malattia durante la terapia o per prevederne un’eventuale ripresa nel tempo. Difficilmente il dosaggio dei marcatori può aiutare il medico a formulare una diagnosi precoce, ma la ricerca in questo campo sta ottenendo importanti risultati

N
el 1965 due ricercatori americani, Phil Gold e Samuel Freedman, isolarono per la prima volta nelle cellule di alcuni tumori del colon una sostanza, identificata come CEA (antigene carcinoembrionario), che si dimostrò presente non solo nel tessuto tumorale, ma anche nel sangue dei malati.
Da diversi anni erano comunque note altre sostanze utilizzabili come marcatori dei tumori (alfafetoproteina per gli epatocarcinomi, proteine monoclonali per i mielomi e alcune sostanze ormonali per le neoplasie endocrine), ma è con il CEA test che la ricerca dedica un’attenzione particolare all’argomento.
Successivamente diversi studi hanno permesso di mettere in luce aspetti e caratteristiche del CEA, definendone meglio prospettive e limiti sul piano dell’utilizzazione clinica.
Si è scoperto che il CEA viene prodotto, benché in piccole quantità, anche dai tessuti sani dell'organismo, in particolare quelli embrionali, e si è constatato anche che nei primi stadi delle neoplasie i suoi livelli nel sangue sono generalmente così bassi da non potere essere distinti facilmente da quelli normali.
Il CEA inoltre può associarsi anche a neoplasie diverse da quelle del colon (pancreas, mammella, stomaco, polmone, vie urinarie) e comparire in concentrazioni apprezzabili anche in seguito a malattie non tumorali, come le infiammazioni acute e croniche del fegato.
Tutto questo ha indicato che la presenza e i livelli nel sangue del CEA non sono indicati per uno screening del tumore del colon-retto nella popolazione sana e che da soli non sono utili neppure per la prima diagnosi di malattia. Per questi due scopi sarebbero necessarie informazioni diagnostiche più specifiche e più sensibili di quelle fornite da questo marcatore.
D’altra parte però trent’anni di utilizzazione hanno confermato la sua importanza clinica prima dell’intervento chirurgico: livelli elevati sono correlati frequentemente con una maggiore probabilità di ricadute e possono indurre, di conseguenza, ad approfondimenti diagnostici che influenzano a volte le decisioni terapeutiche.
Il dosaggio del CEA è ancora più utile dopo la chirurgia, in quanto il persistere di livelli elevati dopo 4-6 settimane può suggerire che l’asportazione del tumore sia stata incompleta o che vi sia la presenza di metastasi. Infine ha dimostrato utilità nel follow up post-operatorio, poiché le sue variazione nel siero sono correlate all'andamento della malattia.

Dalla biochimica alla biologia molecolare


Per molti aspetti le indicazioni emerse dall'uso del CEA test nella pratica clinica possono essere generalizzate anche ad altri marcatori.
Fino a poco tempo fa, con i metodi di analisi biochimica e immunologica non è stato possibile trovare nei liquidi biologici un marcatore “assoluto” del cancro, che sia cioè alterato in tutti i tipi di tumore, e neppure un marcatore che sia sempre presente in un determinato tipo di tumore.
I marcatori tumorali circolanti devono essere considerati dunque come segnali quantitativi di probabilità di malattia: questo significa che le loro informazioni sono tanto più attendibili quanto più il livello del marcatore è alto.
In linea generale questa affermazione può essere messa oggi in discussione dai metodi della biologia molecolare che, grazie a un’elevata specificità di riconoscimento, hanno recentemente permesso di riconoscere alterazioni molecolari specifiche della malignità neoplastica, con risultati solidi e riproducibili a livello cellulare.
Per quanto riguarda la rilevazione di tali alterazioni molecolari nel sangue o in altri fluidi corporei sono in corso valutazioni di sensibilità e specificità per i diversi marcatori nelle diverse neoplasie, ma attualmente non sussistono ancora le condizioni per il trasferimento di queste informazioni alla routine clinica.

La ricerca dei biomarcatori nella pratica clinica


I medici hanno a disposizione un numero elevato di test per i prodotti circolanti correlati a molti tipi di tumore, ma solo alcuni si sono rivelati attendibili, altri non hanno dato performances diagnostiche accettabili o per lo meno migliori di quelle che si possono essere ottenute con test ormai consolidatino. Per questi motivi alcune società scientifiche, tra cui l’ASCO (American Society of Clinical Oncology), hanno proposto linee guida molto severe e talora assai limitative nei confronti di queste indagini.
È necessario selezionare tra i diversi biomarcatori quello più correlato al tumore che si vuole studiare e quello che la letteratura e i lavori internazionali hanno validato sulla base della più larga esperienza clinica. Talvolta, infatti, vengono prescritti dosaggi di biomarcatori le cui informazioni non sono state ancora valutate su casistiche sufficientemente numerose e validate come attendibili. Non vi sono evidenze anche per la pratica di ricorrere al dosaggio di più marcatori associati, con la speranza di ottenere informazioni più complete: in realtà questo approccio non aumenta l’accuratezza della informazione diagnostica e ha anche un peso negativo sotto il profilo del rapporto costo/beneficio.
Quello che conta è che l’informazione abbia un impatto sulle scelte terapeutiche, contribuendo a modificarle e a renderle più efficaci.
È importante in ogni caso sapere interpretare il dato del marcatore, conoscerne i limiti, i bassi valori di sensibilità diagnostica in caso di neoplasie ai primi stadi, la possibilità di “falsi positivi” e le loro possibili cause. Inoltre bisogna tenere conto dell’eventualità di errore dovuto al dosaggio di laboratorio.
Infine le informazioni ottenute dai biomarcatori vanno sempre rapportate al dato clinico: l’interpretazione del test non si basa sulla semplice lettura di un dato di laboratorio, ma va inquadrata all’interno del contesto clinico.
In linea generale il dosaggio dei marcatori difficilmente può aiutare il medico a formulare una diagnosi precoce. Negli stadi iniziali di malattia le concentrazioni degli indicatori biologici circolanti sono spesso troppo basse perché il test risulti utile. Il dosaggio risulta molto più importante per verificare l’efficacia delle terapie oppure per rivelare con anticipo la presenza di un’eventuale ripresa della malattia in pazienti già trattati e in alcuni casi anche per scegliere le cure più adatte. Per raggiungere tali obiettivi occorrono dosaggi ripetuti, che permettano di confrontare tra loro i valori ottenuti nel corso di distinte valutazioni e il loro andamento nel tempo.

Marcatori più utilizzati


CEA (antigene carcinoembrionario)

È il marcatore più noto e più utilizzato nella clinica dei tumori del tratto intestinale, in particolare per quelli del colon-retto. Il suo dosaggio si è rivelato utile soprattutto nel controllo della malattia dopo l’intervento chirurgico per la ricerca di riprese a distanza e per il monitoraggio della risposta ai trattamenti. Il CEA test può essere impiegato anche per il monitoraggio delle neoplasie polmonari. False positività del CEA test possono essere dovute ad abitudini voluttuarie (forti fumatori), alla presenza di malattie croniche intestinali (poliposi e diverticoliti) o epatiche, alla presenza di infiammazioni o infezioni.

CA 15.3 (marcatore mucinico)

Appartiene alla famiglia delle mucine, sostanze contenute nel muco dei tessuti ghiandolari. È prevalentemente associato alle neoplasie della mammella e si trova in concentrazioni elevate soprattutto nelle pazienti con malattia avanzata. Dosaggi ripetuti nel tempo sono utili per la valutazione della risposta ai trattamenti e, al termine della cura, per la ricerca di eventuali recidive.

CA 19.9 (marcatore mucinico)

Viene utilizzato da molti anni, in associazione o in alternativa al CEA, per i tumori del colon-retto o da solo per i tumori del pancreas. Ha indicazioni, limiti e vantaggi sovrapponibili a quelli del CEA; l’associazione dei due marcatori nel follow-up incrementa la sensibilità diagnostica. Può dare falsi positivi in presenza di situazioni infiammatorie croniche del pancreas, del fegato o dell’intestino.

CA 125 (marcatore mucinico)

È molto sensibile e relativamente specifico per le neoplasie ovariche. Nelle pazienti con masse ovariche di incerto significato può servire come orientamento diagnostico. Viene utilizzato con successo nella valutazione delle risposte ai trattamenti chirurgici o chemioterapici: per alcuni oncologi avrebbe anche un significato prognostico. Può dare falsi positivi in presenza di endometriosi e di infiammazioni peritoneali.

Citocheratine

Il TPA, il TPS e il Cyfra 21.1 sono tra le citocheratine più utilizzate come marcatori oncologici. La loro concentrazione nel sangue è proporzionale alla massa del tumore e alla sua aggressività. Sono associati a diversi tipi di tumore epiteliale, senza una specificità definita. Nella pratica clinica vengono utilizzati nella valutazione delle risposte alla terapia: il TPA, per esempio, può essere utile nel controllo dei risultati nella cura del carcinoma del polmone e delle vie urinarie.

AFP (alfa-fetoproteina)

L’alfa-fetoproteina, come altri marcatori oncologici, viene prodotta anche in condizioni di assoluta normalità: è presente nel siero materno a partire dalla 4ª-5ª settimana di gravidanza. È stata dimostrata una buona correlazione con la presenza di tumori al fegato. In questa patologia l’AFP viene utilizzata nella fase di diagnosi in associazione con esami strumentali, nel monitoraggio della terapia e per una valutazione prognostica. L'AFP è anche un marcatore di alcuni tumori del testicolo e dell’ovaio: in queste patologie ha grande importanza clinica, essendo indispensabile sia per la stadiazione del tumore sia per valutare l'effetto delle cure.

HCG (gonadotropina corionica)

Ormone collegato fisiologicamente alla gravidanza, è un marcatore dei tumori germinali dell'ovaio e del testicolo e ha la stessa importanza clinica dell'AFP, con la quale viene dosata in associazione. Inoltre è di importanza fondamentale per la diagnosi e il monitoraggio del coriocarcinoma.

PSA (antigene prostatico-apecifico)

Cause di innalzamento del PSA sono patologie benigne (prostatite o iperplasia prostatica) e il carcinoma della prostata. La frequenza e l’entità dell’innalzamento dei suoi livelli sono correlati alla estensione del tumore: nei primi stadi del suo sviluppo (tumore intracapsulare) i livelli di PSA non sono differenti da quelli che si osservano in presenza di iperplasia prostatica. Il dosaggio è utile per la diagnosi, in associazione all’ecografia e all’esplorazione rettale, e nel monitoraggio dei trattamenti, ma anche nella stadiazione della malattia e nella ricerca di una sua eventuale ripresa nel paziente già operato. Alcuni autori sostengono che il dosaggio del PSA può essere utile anche nello screening dei tumori della prostata, cioè come esame da proporre alla popolazione sana per identificare i soggetti a rischio.

NSE (enolasi neurone-specifica)

Il dosaggio di NSE viene considerato oggi come l’indagine di laboratorio che dà informazioni più attendibili per la prognosi e la valutazione della risposta terapeutica del microcitoma polmonare. Rappresenta un importante marcatore anche per il neuroblastoma e più in generale per i tumori del sistema neuroendocrino.

TG (tireoglobulina)
È un importante marcatore delle neoplasie tiroidee. Quando ai pazienti è stata asportata la ghiandola, elevati livelli di tireoglobulina indicano la ripresa della malattia: la tireoglobulina, infatti, è una proteina che viene prodotta esclusivamente dal tessuto tiroideo. Se la ghiandola tiroidea non è stata asportata, il dosaggio è necessario per monitorare l’andamento della malattia durante e dopo la cura.

CT (calcitonina)

È un indicatore del tumore midollare della tiroide: il suo dosaggio dopo stimolo viene utilizzato anche per la diagnosi della forma familiare. Rappresenta uno strumento accurato per la valutazione della risposta alla cura e nel monitoraggio dell’andamento della malattia.

Prospettive della ricerca


Attualmente si sta cercando di decifrare i primi segnali che indichino la presenza di cellule tumorali, sia per una diagnosi precoce nei pazienti con tumore in fase iniziale e nei soggetti a rischio, sia per un tempestivo monitoraggio del decorso della malattia.
Uno dei settori di ricerca particolarmente promettente è rappresentato dall’identificazione di alterazioni genetiche, rilevabili con tecniche molecolari a elevata sensibilità in fluidi biologici, che possono essere raccolti mediante procedure minimamente invasive per il paziente.
Per esempio la presenza di alterazioni nel gene neu o c-erbB-2 ha recentemente dimostrato di potere indicare la risposta del tumore mammario a farmaci specifici: la determinazione di queste alterazioni potrebbe fornire informazioni utili per la pianificazione del trattamento. Inoltre, il recettore c-erbB-2 rappresenta un bersaglio farmacologico, inattivabile con anticorpi specifici. I centri oncologici più avanzati hanno recentemente attivato protocolli di studio clinico nei quali l’anticorpo anti-c-erbB-2 viene somministrato in combinazione con chemioterapicino standard.
Un altro interessante settore di ricerca è rappresentato dallo studio della telomerasi, un enzima che consente alla cellula di continuare a duplicarsi in maniera corretta e il cui ruolo sembra determinante per l’insorgenza dei tumori.
La telomerasi è presente in circa l’85-90% dei tumori, proprio per questo si sta studiando una sua applicazione in campo diagnostico e come indicatore di aggressività. Inoltre, in considerazione del suo ruolo nel sostenere la crescita dei tumori, è di estremo interesse in campo clinico lo studio di sostanze in grado di bloccare questo enzima e quindi di ostacolare la crescita tumorale.