M.D. numero 10, 22 marzo 2006


Editoriale
La medicina generale che piace alla gente

L'ultima rilevazione del Censis sulla salute degli italiani non lascia grande spazio alle interpretazioni: gli italiani apprezzano il loro medico di famiglia. Lo apprezzano più di tutti gli altri professionisti della salute che trovano intorno a sé nel momento della difficoltà. Ma gli italiani stimano di più il proprio Mmg quanto più egli è vicino, empatico, comunica, dedica tempo e, soprattutto, apre uno spazio profondo di condivisione con il suo paziente. Quando questi incontra quel tipo di medico è disposto a farsi accompagnare nel percorso terapeutico, collaborando, ascoltando, risparmiando pure, quando possibile.
Il medico meno gradito dagli italiani, pur ragionando ancora in un arco di numeri che trasmettono positività rispetto alle altre categorie professionali, è lo specialista: iper-tecnico, irraggiungibile, difficile da comprendere, ma ancor più da intercettare, in molta parte del territorio nazionale, senza mettere mano pesantemente
al portafogli. È il tecnicismo, soprattutto, che mette in allarme i pazienti e li allontana in virtù di un linguaggio per iniziati e di un moltiplicarsi di screening e nuove tecnologie che troppo spesso non si traducono in qualità della vita, ma in stress, in viaggi della speranza.
E proprio dagli Stati Uniti, uno dei Paesi più avanzati nelle tecnologie e nella ricerca biomedica, arriva l’ultima, interessante provocazione. Dalle pagine di JAMA i medici si interrogano: “come nell’antica tradizione, il medico dovrà mettersi a studiare l’antropologia, la filosofia, le arti, per riguadagnare quello spessore umanista necessario a una formazione più calda del futuro professionista della salute”. Un’eresia o la necessità di un deciso passo avanti verso quella compliance che i pazienti corrispondono sempre più in via quasi esclusiva al proprio medico di famiglia?
Il prossimo agosto la società delle società scientifiche mondiali della medicina generale, il Wonca, si dà appuntamento a Firenze, culla di nascita del rinascimento delle belle arti per interrogarsi su come gettare ponti nuovi tra l’avanzamento tecnologico e l’originaria humanitas del medico di famiglia. Forse sarà quello il luogo più appropriato dove fare un passo deciso verso una scelta formativa ancora rimandata: fare della medicina di famiglia una disciplina specialistica a sé, come primo passo per gettare il cuore oltre l’ostacolo del tecnicismo. Forse non c’è bisogno tanto di antropologia, pur necessaria, e di muse, pur godibili, quanto di prendere un po’ più sul serio la medicina più vicina al letto del paziente, offrendole pensiero, luoghi di crescita, strumenti formativi. Che i pazienti l’abbiano capito, sulla propria pelle, prima di tante istituzioni?