M.D. numero 11, 4 aprile 2007

Appunti
Salvarsi l'anima per obbligo di contratto

"Me l’hanno dimesso ieri. Dovrebbe venire a casa a visitarlo, perché ha la febbre, tosse, catarro, dissenteria, dolori dappertutto, e se si muove gli gira la testa”.
Da dove l’avranno dimesso? Dai campi per desaparecidos del generale Pinochet? Il dubbio mi sembra lecito, ma non oso manifestarlo alla gentile signora che mi sta davanti. Non conosco la sua fede politica, e poi mi sembra di ricordare che qualche giorno fa avevo rilasciato al caro congiunto un’impegnativa di ricovero per il locale ospedale. E non siamo in Sud America. Dunque, sono di fronte a un’omissione di soccorso. Che faccio? Alzo la cornetta e chiamo il giudice per le indagini preliminari? No, forse è meglio che chiami semplicemente il maresciallo dei Carabinieri. O forse è il caso che non chiami nessuno? In fondo, se non l’ha fatto la signora, meglio non immischiarsi. L’ho già detto: non siamo in Sud America. Siamo in Italia, il che è peggio.
“È arrivato a casa - esordisce un altro assistito - Avrebbe dovuto vedere che cosa non gli han fatto in ospedale. L’Unità Coronarica è un gioiello. Monitor dappertutto. Infermiere che andavano e venivano. Ogni giorno una visita specialistica. Gli hanno fatto la radiografia del torace, la coronarografia, due volte l’ecocardiogramma. L’hanno fatto passare tutto con l’ecodoppler. Ogni giorno c’era un esame del sangue...”.
Dunque il parente è contento. Non è venuto a chiedermi un’impegnativa per un secondo parere al Methodist DeBakey Heart Center di Houston. Che cosa vuole dunque? La trascrizione delle medicine? Sì, ma non solo.
“Dottore, dovrebbe venire a casa a fargli una visita”. Una visita? Qualcuno dei miei colleghi sarebbe lusingato: forse il parente non mi ritiene all’altezza del Methodist di Houston, ma evidentemente mi ritiene una spanna più sopra dell’Unità Coronarica dell’ospedale locale. Se no, perché mai mi chiederebbe di visitare l’illustre paziente appena dimesso dai nostri cardiologi? Purtroppo però la mia autostima non è al livello di quella dei miei colleghi generalisti. Malignamente spiattello al parente la verità. “Sa, non ne capisco molto di cardiologia. Sarebbe più prudente farlo visitare da un vero cardiologo. Anzi, da uno veramente in gamba”. E gli allungo il numero di telefono di quello che costa di più. Certo che, se a pagare la parcella fossero i miei colleghi responsbili di questa diseducazione dei pazienti, sarei ancora più felice.
“Buongiorno dottore. Dovrebbe venire a casa a visitare un suo paziente che è stato dimesso dall’ospedale”.
“Che cos’ha?”
“Niente di nuovo, ormai è una cosa cronica. Ma in ospedale venivano tutti i giorni a visitarlo”.
Ottimo motivo per chiedere una visita domiciliare.
Ci credo che in ospedale lo visitavano tutti i giorni! La sua stanza era a dodici metri e quarantacinque centimetri dallo studio medico e bisognava passarci davanti per forza per andare alla macchinetta del caffè. Per giunta i medici erano metà di mille. Qualcuno doveva pur fermarsi ogni tanto a dargli un’occhiata. Non si può leggere il giornale tutto il giorno, verrebbero gli occhi rossi. Qui, sul “territorio”, le cose però stanno in modo un po’ diverso. Metà di mille, anzi un po’ più di mille, sono i pazienti, e il medico è uno solo. È vero che per fortuna i pazienti non si ammalano tutti insieme, ma è anche vero che quasi nessuno ha il buon senso di prendere un appartamento nello stesso caseggiato dove il medico ha lo studio. Ci sono degli incoscienti che sono andati ad abitare a tre o quattro chilometri di distanza. Alcuni addirittura abitano in vie così strette che, se ci entri con la macchina, non puoi nemmeno aprire lo sportello per uscire. Devi per forza trovare un parcheggio vietato a qualche centinaio di metri di distanza. Sì, “vietato”, perché non è certo il caso di perdere tempo a cercarne uno consentito. Quando ho iniziato a fare questo mestiere il boom economico era già arrivato, ma le automobili erano ancora poche e se si andava a fare una visita domiciliare si poteva ragionevolmente sperare di parcheggiare quasi sotto casa del paziente e per giunta in aree consentite. Oggi ci sono quasi più macchine che persone, e tutti gli spazi sono perennemente occupati. È già tanto se non c’è qualche veicolo parcheggiato davanti al mio box e riesco a uscire. In ospedale una visita “domiciliare” costa la fatica di alzarsi dalla sedia, di fare da otto a ventidue passi, e magari di bersi un caffè (quarantacinque centesimi alla maggior parte delle macchinette). Sul territorio la visita domiciliare costa un quarto d’ora di coda, venti minuti di ricercano di un parcheggio vietato che non ostruisca però del tutto la strada, e qualche volta anche tre ore e centocinquanta euro per recuperare la macchina che è stata comunque portata via dal carro attrezzi. Tutto questo per salvare una vita umana? No: “Perché sa, dottore, lui avrebbe piacere di vederla”. Certo.
Visitare gli infermi è un atto di pietà che, in clima di catto-medichismo, giustamente è stato incluso tra gli obblighi della convenzione. Non è dunque questione di salvare la vita del paziente. È questione di salvarsi l’anima, insomma. Per obbligo di contratto.

Antonio Attanasio,
Medico di medicina generale
Mandello del Lario (LC)



Nulla cambia e cresce il disagio professionale

Dopo un’altra giornata caratterizzata dall’ennesimo cumulo di burocrazia sbrigato in diverse ore, telefonate molto spesso inutili da parte di frequent caller (pericolosi cugini dei frequent attender), inutili interferenze da parte di assistiti che pretendono visite urgenti in ambulatorio o a domicilio, mi trovavo a ragionare sul fatto che gran parte delle cose, che debbo fare non le ho decise io, nè tantomeno colleghi di mia conoscenza.
Ho delle incombenze professionali che se fossero state contemplate all’inizio della carriera, avrei continuato a fare l’ospedaliero e sicuramente non avrei fatto il Mmg. Ho scelto di esserlo in base soprattutto al tempo dedicato alla relazione con il paziente.
L’unica cosa che attualmente mi dà veramente soddisfazione è il dialogo con il paziente in difficoltà: può evitare malintesi, spese e ricoveri inutili, si possono dare delle speranze, invece tutto questo viene meno in virtù di una “tuttologia medica” che regna sovrana, tutto è schematico e veloce.
Non so proprio con quale coraggio certi rappresentanti di categoria affermino che i Mmg debbano riappropriarsi della loro professione, inserendo una marea di mansioni, specie domiciliari, in virtù di non ben definite soddisfazioni professionali. Ma non conosco colleghi che vanno in brodo di giuggiole né tantomeno si sentono realizzati professionalomente con ADI, ADP o quant’altro. Mi chiedo perché la base non è mai interpellata, per esempio con un sondaggio fra tutti i colleghi per vedere cosa proponga o desideri la maggioranza.
Il fatto è che come professionista non mi sento realizzato. Non capisco questa marea di mansioni e controlli senza sgravare minimamente il Mmg da burocrazia o cose inutili o evitabili. Come facciamo a garantire qualità, soddisfazione o minimizzare l’errore medico se tutto cambia sempre a nostro sfavore? Mi viene da sorridere pensando ai corsi ECM in cui ci sono spiegate terapie semi-sperimentali o eroiche, ma noi Mmg siamo legati alle note AIFA, a protocolli, linee guida o piani terapeutici: a cosa serve un background anche di alto livello se poi non lo si può applicare?
Formiamo medici di famiglia per prescrivere solo alcuni farmaci in nota o per accorere a sirene spiegate se il paziente ultranovantenne anni in ADI ha avuto una scarica diarroica o per fare il medico/manager finalizzato al risparmio del Ssn. E continuo a chiedermi: cui prodest questa situazione professionale dei medici di medicina generale?

Vittorio Principe,
Medico di medicina generale
Bolzano