M.D. numero 12, 11 aprile 2007

Appunti
A proposito dei ricettari per gli oppiacei

Tempo fa si era sentito parlare di liberalizzazione nella prescrizione degli oppiacei per i pazienti affetti da dolore neoplastico, ma a tutt’oggi sembra che nulla si stia muovendo. Ora, in tema di liberalizzazione, vorrei sapere perché ogni volta che prescriviamo cerotti di fentanil a un paziente neoplastico, noi medici dobbiamo essere puniti così selvaggiamente con l’obbligo di abbandonare il nostro PC, frugare nei cassetti, pescare il ricettario speciale, e compilarlo a mano. Ma quanti tossicodipendenti ci sono in Italia che si “fanno” con i cerotti di fentanil? E se anche ce ne fossero, quale mente peregrina ha potuto convincersi che il modo migliore per dissuaderli è quello di far compilare al medico la ricetta a mano? Con tutti i controlli che ci sono oggi sulle ricette computerizzate, è molto più facile contraffare una ricetta manuale che una informatizzata.
Ma ci sarebbe anche una noterellina sul buon senso di chi ha progettato i ricettari per gli stupefacenti. Se si devono compilare tre modelli a ricalco, tutti sanno che per poterli leggere bisogna che siano tutti di uguale e leggero spessore. Se proprio vogliamo fare i raffinati e prevedere che uno dei fogli sia di più consistente spessore, dovremo far sì che la carta di maggior grammatura sia quella del terzo e ultimo foglio. E allora perché questi ricettari per stupefacenti hanno il foglio più pesante per primo e quelli più leggeri come secondo e terzo? Mi chiedo cosa potranno leggere sulla loro copia i controllori del Ssn, ma soprattutto sulla “copia prescrittore” quei poveri NAS che dovessero avere l’incarico di verifiche dal medico. O si portano dietro tutto l’armamentario della polizia scientifica, meglio ancora se quella in dotazione al CSI televisivo, oppure tanto vale che lascino perdere. Ma continuo a chiedermi dove li va a prendere i “tecnici” il nostro ministero della Salute.

Antonio Attanasio,
Medico di medicina generale
Mandello del Lario (LC)



Storia italica di nascita di una medicina di gruppo

Vorrei portare all’attenzione dei colleghi una strana e penosa vicenda che mi coinvolge direttamente in merito a una “allegra” costituzione di una medicina di gruppo a Uboldo, in provincia di Varese, cittadina in cui opero come medico di famiglia.
Poco dopo l’elezione degli amministratori in carica ho cercato di convincere il vicesindaco, che pareva interessato, a concedere dei locali del Comune in affitto ai medici del paese, locali in cui si sarebbe contemplata anche la figura di una infermiera e di una segretaria. Sarebbe stato possibile realizzare ciò anche grazie all’utilizzo degli appositi stanziamenti nazionali e regionali. Ma questa proposta tale è rimasta. A distanza di un anno senza essere avvertito da nessuno dell’amministrazione comunale, vengo a conoscenza del fatto che un collega raccontava che si sarebbe trasferito insieme ad altri tre medici in un poliambulatorio comunale. Al riguardo il vicesindaco mi assicurava, contro ogni evidenza, che nessun medico pubblico sarebbe stato discriminato. Così, nelle successive riunioni in Comune gli ambulatori, inizialmente previsti nel numero di quattro, diventavano sette. Ma i medici dei primi quattro costituivano un gruppo a se stante, mentre gli altri medici aderenti, pur facendo lo stesso lavoro e sotto lo stesso tetto, avrebbero non solo percepito emolumenti minori ma sarebbero stati esclusi anche dalla scelta della cooperativa su cui appoggiarsi. Infatti nell’ultima riunione alla quale presenziammo solo io e un collega, c’era un rappresentante di una cooperativa di servizio, a noi ignota, autonomamente scelta dai quattro medici del gruppo a se stante.
I nostri quattro colleghi, assenti, avevano già deciso tutto insieme all’assessore. In tale seduta dichiarai all’assessore che tale condizione di subordinazione a medici che svolgevano le stesse mie funzioni pubbliche era per me inaccettabile e lo diffidai dal proseguire nell’iniziativa, finanziata anche con i contributi miei e dei miei assistiti. In ogni caso, chiesi di poter avere copia della convenzione stipulata con i sanitari, sia per verificare gli affitti, che non potevano certo essere di favore, in simili circostanze, sia per poter giudicare la correttezza della pratica e delle autorizzazioni. Il poliambulatorio infatti doveva essere allestito nei seminterrati di scuole pubbliche, in locali già adibiti a laboratori, con nocumento alla didattica. Inoltre, sempre in tale circostanza, ricordai e feci presente che anni addietro un progetto sanitario in tale luogo non aveva avuto seguito, per insufficiente altezza delle pareti. Ad oggi non so nulla di questa convenzione. Agli inizi di marzo, ancora una volta per sentito dire, apprendevo che il poliambulatorio avrebbe aperto il giorno 19 marzo. Così ho indagato e scoperto che al 15 marzo le indispensabili autorizzazioni non risultavano ottenute, ma nemmeno richieste. Forse, pensai, avrò telefonato negli uffici sbagliati.

Giuseppe Luraschi,
Medico di medicina generale
Uboldo (VA)