M.D. numero 22, 14 giugno 2006

Esperienze
Sedotta dalla medicina di famiglia

Il vissuto professionale ed emotivo di una studentessa durante il tirocinio presso lo studio del medico di famiglia tutor

Il medico di famiglia (MdF), a volte inconsciamente, adotta un modello ermeneutico (hermeneutike = arte dell’interpretazione) che vede nell’uomo qualcosa di più di un organismo biologico o un insieme di cellule, tessuti, organi e apparati, e tenta di capire e interpretare (con tutti i suoi cinque sensi) l’azione umana, la dimensione della vita, il senso dell’esistenza, della sofferenza e della morte.
Il MdF è portato per sua natura a questo approccio olistico in quanto la continuità assistenziale, che è caratteristica peculiare e che lo contraddistingue, conduce alla sua osservazione individui che lui conosce nella loro complessità, inseriti in un ambiente sociale, familiare e lavorativo imprescindibili dal consulto in sé. Questa complessità nel rapporto tra medico e paziente fa sì che la soluzione dei problemi da parte del MdF proceda prevalentemente con modalità non lineare o euristica, ossia attraverso una serie di prove e conferme che modificano ogni volta il percorso, secondo il teorema di Bayes.
Trasmettere allo studente tali principi non è impresa facile. Esiste una complessità intrinseca alla interazione fra il “materiale” umano e il curante, che, peraltro, è anch’esso variabile nelle sue fluttuazioni quotidiane. Tradurre i comportamenti del MdF in tabelle e schemi è pressoché impossibile, ed i tentativi finora condotti, almeno nella nostra esperienza, non hanno raggiunto lo scopo. Ecco che l’esperienza del tirocinio ambulatoriale diventa preziosa nell’obiettivo di far comprendere la nostra disciplina. Lo scritto che segue costituisce le principali - e non uniche - impressioni di una studentessa che ha frequentato il mio ambulatorio per quindici giorni. Quello che colpisce è non solo l’acume delle osservazioni, la capacità empatica in situazioni complesse, l’attenzione a particolari aspetti clinici e umani, ma anche la fertilità a un approccio globale, visto come il più bello possibile. Gli incontri con gli studenti, gli scambi che avvengono con loro in quel rapporto genitoriale (utilissimo) che necessariamente si crea, mostrano che la MdF ha un grande ruolo nella Facoltà di Medicina. C’è uno spazio da riempire che non è solo il gap fra teoria e prassi, ma anche il modus di affrontare quanto di più complesso esiste in Medicina: l’uomo nella sua esperienza da malato o presunto tale.

Paolo Evangelista

Mmg, Professore a contratto di Medicina
di Famiglia, Università di L’Aquila,
Responsabile attività formative
“Undergraduate” AIMEF

Il tirocinio e la scelta di “essere medico”

Non ho mai avuto le idee chiare sulla specializzazione dei miei studi in Medicina e ho spesso guardato con invidia a chi, invece, ha sempre avuto un obiettivo ben definito: “Voglio fare il neurochirurgo, lo psichiatra, il radiologo, l’endoscopista, l’oculista”. Io ho sempre e solo voluto essere medico. La laurea è vicina e ultimamente la mia confusione è aumentata. Lo studio delle discipline specialistiche e superspecialistiche mi ha fatto come perdere di vista l’obiettivo. C’è chi sostiene che nella vita nulla avviene per caso, eppure per caso, seduta al tavolo di un ristorante (in occasione di un Congresso dell’AIMEF ad Abano Terme), ho sentito finalmente parlare della Medicina come per anni ho aspettato che qualcuno facesse. Ed è stato per caso, perché potevo essere assegnata a un altro medico per il mio tirocinio, che ho conosciuto Don Alberto, il Signor Giuseppe e Paola.
È a loro che ho subito pensato quando mi è stato chiesto di descrivere il mio tirocinio dal medico di famiglia. Sì, perché di cose ne ho viste, imparate, fatte tante, ma quei quindici giorni sono stati per me soprattutto un’occasione per riflettere e per ricordarmi che i “modi” di praticare la Medicina sono infiniti e quello della medicina di famiglia è un “modo” speciale.
Durante il tirocinio non ho visto semplicemente curare il diabete o l’ipertensione o la vaginite o l’otite o la bronchite, ma ho visto il dottore prendersi cura di Don Alberto e della “sua” ipertensione, di Paola e della “sua” sindrome di immunodeficienza acquisita (AIDS), di Giuseppe e del cancro che “lo” ha ucciso.
Nella medicina di famiglia non esiste, infatti, la malattia in quanto entità nosografica, non esistono linee guida, né griglie in cui inserire segni e sintomi nel tentativo di pervenire a una diagnosi più o meno corretta; ci sono i pazienti, con le loro storie, la loro vita, le loro malattie, le più varie; c’è il dottore che ascolta, conforta, rassicura, prescrive farmaci e accertamenti, visita, consiglia, a volte alza la voce, entra nelle case dei suoi assistiti, nelle loro esistenze, conquistando ogni giorno qualcosa che arricchisce la conoscenza, la stima, l’affetto che lui ha per loro e loro per lui.

Don Alberto


Don Alberto è uno dei tanti ipertesi cui regolarmente il dottore controlla la pressione in ambulatorio. È agitato, si lamenta, dice di non sentirsi bene. Misuro la pressione: 135/95 mmHg.
Don Alberto insiste, dice di stare male, tira fuori i cartoncini dei farmaci, dice che forse bisogna cambiarli. A un certo punto, non so neppure come, inizia a parlare d’altro. È imbarazzato, con fatica descrive il suo stato d’animo. Il tempo passa, la sala d’attesa fuori si riempie, ma il dottore rimane calmo e ascolta, gli chiede della madre malata di Alzheimer e della parrocchia. Mi sento un po’ a disagio, un’estranea che assiste ad una confidenza intima, difficile. Forse dovrei uscire, ma il dottore non mi fa alcun cenno e io rimango lì, in silenzio.
Don Alberto esce dall’ambulatorio dopo più di un’ora. Il dottore gli ha proposto una psicoterapia, ma lui si è mostrato perplesso.
Sento già i passi del prossimo paziente, quando il dottore si rivolge a me dicendo “Don Alberto ha perso le sue certezze, è in crisi. Cosa devo fare io: costringerlo ad affrontare una realtà che lui rifiuta o limitarmi ad assecondarlo in questo suo stato di non accettazione?”

Il signor Giuseppe


Il signor Giuseppe ha 85 anni e un epatocarcinoma. Quando la figlia ci apre la porta sono emozionata e imbarazzata. Il dottore è accolto come fosse un familiare, un amico, ma io sono un’estranea. Faccio pochi passi e sono travolta da un mondo intero: mobili, oggetti, colori, odori, foto, scatole di medicine accatastate in un angolo della cucina. È il mondo del signor Giuseppe, adesso gonfio, itterico, immobile nel suo letto, ma ancora capace di accogliermi con un gran sorriso.
Fuori nevica e io ho le mani più gelate del solito. Avrei voluto evitare di trasmettergli quel freddo, di procurargli quel brivido, ma lui insiste e stringendomi la mano dice “E’ un piacere lo stesso”.
Il dottore lo visita, scherza con lui, risponde alle domande dei figli, riempie carte e carte di documentazione ADI, cerca una soluzione alternativa alla nutrizione parenterale, che Giuseppe non sopporta, e prova a “dare un senso” ai numerosissimi farmaci che assume.
La situazione è grave: Giuseppe non si alimenta, il suo fegato non funziona più, la creatinina è a 3,5, l’edema polmonare incombe minaccioso. Ha scelto di non essere ricoverato, nonostante le insistenze del dottore, che si è comunque fatto carico di lui, fino a quell’ultimo giorno in cui Giuseppe è morto, nel suo letto, nella sua casa, serenamente. Quel giorno io non c’ero, eppure ci eravamo detti “arrivederci”.

Paola


Paola ha l’AIDS ma io non lo so ancora quando mi avvicino a lei per palparle i linfonodi cervicali. Sono sul punto di sfiorarla quando mi dice “Ho l’AIDS”.
Le sorrido, per rassicurarla, credo, ma mi sento invasa da un turbinio di emozioni: quanti e quali sentimenti si nascondono dietrono quella affermazione. Vorrei abbracciarla. È sul punto di uscire quando si rivolge al dottore dicendo: “Paolo (perché qui il dottore lo chiamano tutti per nome), spesso la notte mi sveglio, ho paura. E se mi viene un cancro o un’infezione e qualcosa di grave? Poi però penso: tanto c’è Paolo. Allora mi calmo e mi riaddormento”.
Penso spesso a Paola e mi chiedo: riuscirò mai io conquistare tanta fiducia da parte di un paziente e mi sentirò mai dire qualcosa che anche solo lontanamente ricordi quello che ho sentito dire da lei al dottore?
Torno spesso in ambulatorio. Quelle due settimane di tirocinio mi hanno ricordato perché mi sono iscritta a medicina: il medico, così come lo immaginavo da bambina, esiste davvero.

Alessandra Bozzelli

Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia
Università di L’Aquila