M.D. numero 23, 21 giugno 2006

Ricerche
Gestione condivisa dell’iperplasia prostatica benigna
di Sebastiano Spatafora, Dirigente Medico, UO di Urologia, Dipartimento Chirurgico 1°, AO “S. Maria Nuova”, Reggio Emilia

Lo studio PRODEST dell’Associazione Urologi Italiani ha coinvolto specialisti e Mmg per valutare l’impatto di una condivisione di protocolli diagnostici per il paziente con disturbi delle basse vie urinarie.
La shared care è risultato un metodo efficace per la messa a punto dei principi dell’EBM, anche se lo studio ha rilevato che servono altri interventi per il miglioramento della qualità, che coinvolgano tutte le professionalità cliniche


Il numero di prestazioni sanitarie legate alle affezioni prostatiche è esorbitante: oltre 8 milioni ogni anno.
L’iperplasia prostatica benigna (IPB) è la seconda patologia per diagnosi effettuate negli uomini in Italia, seconda solo all’ipertensione arteriosa. Il numero di visite è andato costantemente aumentando negli ultimi anni e, considerando che la prevalenza dell’IPB aumenta con l’aumentare dell’età, con l’invecchiamento progressivo della popolazione il carico di lavoro per i medici di medicina generale e per gli urologi sarà sempre più importante.
Di fronte a questa situazione “preoccupante”, è necessario da un lato applicare le evidenze scientifiche in modo da rendere le prestazioni sanitarie efficaci, efficienti e appropriate, dall’altro promuovere la cosiddetta “shared care”, ovvero la gestione comune tra Mmg e urologo del paziente con disturbi delle basse vie urinarie (LUTS).
La finalità principale della shared care è il “bene” del paziente, in quanto mira al miglioramento della qualità del suo trattamento, ma essa comporta necessariamente anche delle ricadute positive sulla pratica quotidiana del Mmg e dello specialista.
Ridurre l’invio del paziente allo specialista permette un più facile accesso ai servizi sanitari di secondo livello a chi ne ha effettivamente bisogno.
Le naturali conseguenze di ciò sono la diagnosi più precoce di malattie potenzialmente maligne, la riduzione delle liste di attesa per esami e ricoveri e la riduzione dei ricoveri inappropriati.
Inoltre, il continuo scambio di informazioni tra medico di medicina generale e urologo porta al miglioramento del follow up del paziente, incoraggia l’aggiornamento del Mmg e determina un maggiore coinvolgimento dello specialista nella comunità medica.
In base a queste considerazioni l’Associazione Urologi Italiani (AURO.it) ha sviluppato un programma di shared care (Studio Prostate Destination: PRODEST) che ha coinvolto 48 centri urologici, distribuiti su tutto il territorio italiano, e 445 medici di medici generale, il cui scopo era valutare l’impatto della condivisione tra specialista e Mmg di protocolli diagnostici per la valutazione iniziale del paziente con LUTS.

Studio PRODEST: prima fase

Indagine conoscitiva della pratica corrente dei Mmg
La prima parte di questo programma è stata l’effettuazione di uno studio osservazionale prospettico che ha valutato i percorsi diagnostici di 1.399 pazienti consecutivi che si sono rivolti ai propri medici di medicina generale per LUTS di prima presentazione.
I dati di questa indagine sono stati pubblicati nel 20041 evidenziando due aspetti molto importanti.
1. I Mmg italiani si assumono gran parte del carico della diagnosi di primo livello (il 50.3% viene gestito interamente da loro e il 44.8% viene inviato allo specialista solo dopo l’esecuzione di esami di base) e questo comporta un vantaggio per i pazienti a cui viene fatta la diagnosi in tempi ridotti (36.0 giorni per la gestione esclusiva dei Mmg contro 51.4 giorni per l’invio immediato allo specialista e 43.4 giorni per l’invio differito dopo l’esecuzione di esami di primo livello).
2. I percorsi diagnostici non sono in linea con i risultati dell’evidenza scientifica e da ciò derivano alcuni comportamenti che mettono a rischio la correttezza diagnostica (l’esplorazione rettale viene effettuata solo in un terzo dei pazienti, con la conseguenza che nel 26.4% dei casi viene posta una diagnosi senza l’esecuzione di tale esame) e la prescrizione eccessiva di esami non necessari (principalmente l’ecografia prostatica transrettale, eseguita addirittura nel 33.5% e alcuni test laboratoristici quali l’azotemia, la fosfatasi acida prostatica e l’urinocoltura).

RiflessioniLinee guida sull’IPB


L’assenza di linee guida italiane ufficiali sulla gestione dei pazienti con iperplasia prostatica benigna era un problema importante, concausa della mancata aderenza dei comportamenti diagnostici rilevati dallo studio PRODEST.
Questa lacuna è stata colmata alla fine del 2004 con la pubblicazione da parte di AURO.it delle prime linee guida italiane redatte in collaborazione con l’Associazione Italiana Medici di Famiglia (AIMEF), con il Centro per la Valutazione dell’Efficacia dell’Assistenza Sanitaria (CeVEAS) e con un gruppo multidisciplinare comprendente anche geriatri, radiologi e amministratori sanitari.
Il documento (scaricabile dal sito www.auro.it) è stato valutato dal Piano Nazionale per le Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità che lo ha ritenuto conforme con i propri principi, pubblicandolo nella forma completa sul proprio sito www.pnlg.it e predisponendone una versione sintetica edita a carattere ufficiale dall’ISS.

Aderenza alle linee guida

Non è pensabile che la semplice produzione e pubblicazione di linee guida, anche se autorevoli, ufficiali, metodologicamente rigorose e basate sulla medicina dell’evidenza, possa incidere profondamente sulla pratica clinica corrente. È diffusamente riconosciuto infatti che l’implementazione di linee guida e/o algoritmi basati sull’evidenza scientifica incontra notevoli difficoltà in tutto il mondo.
Le ragioni della complessità di questo processo non sono ben chiare, ma sono stati identificati diversi ostacoli responsabili di ciò.
Le barriere individuate sono attitudinali (riluttanza al cambiamento, convincimenti culturali, difficoltà a modificare comportamenti clinici radicati, credenza che le linee guida interferiscono sulla propria libertà di giudizio clinico) e organizzative (importanti carichi di lavoro, mancanza di incentivi e/o supporti al cambiamento da parte dei servizi sanitari, mancanza di efficaci interventi educazionali)2,3.
In particolare i Mmg mostrano resistenze verso le linee guida prodotte dagli specialisti o dagli amministratori sanitari senza un loro diretto coinvolgimento4 e i Mmg italiani sono diffidenti verso le raccomandazioni fatte da esperti non appartenenti alla categoria medica o che pongono molta enfasi alla riduzione della spesa sanitaria3. In Italia sono presenti altre peculiari barriere all’adozione di comportamenti clinici codificati dovute alla presenza di complesse eredità culturali e accademiche e di marcate differenze tra le varie zone geografiche.
Inoltre, la consuetudine dei Mmg italiani a non lavorare in associazione con altri colleghi può facilitare l’utilizzo di approcci diagnostici più cauti che comportano la sovraprescrizione degli accertamenti clinici3.

Condivisione di protocolli diagnostici


Durante l’ultimo decennio sono stati fatti numerosi sforzi per identificare il metodo più efficace per tradurre i principi della medicina basata sull’evidenza nella pratica clinica corrente, ma fino a oggi non è stata identificata nessuna soluzione che possa essere applicata universalmente.
Sicuramente le strategie tradizionali basate su letture accademiche, conferenze o diffusione di manoscritti hanno avuto dei risultati limitati, e sono quindi preferibili metodi adattati ai contesti clinici locali5.
Conoscere le attitudini e i convincimenti dei medici potenziali fruitori delle linee guida e le barriere ambientali locali è un fattore essenziale per il successo dei processi di implementazione5. Inoltre è dimostrato che le linee guide sono maggiormente recepite dai Mmg quando essi sono direttamente coinvolti nella produzione dei protocolli4 e un’indagine sulle preferenze di Mmg australiani sui sistemi di implementazione delle linee guida sui LUTS ha rilevato che il metodo di scelta era l’incontro in piccoli gruppi con un urologo e un Mmg facilitatore6.

Studio PRODEST: seconda fase

Cambiamento delle routine diagnostiche dei Mmg
Basandosi su queste evidenze è stata disegnata la seconda parte dello studio PRODEST, nella quale un protocollo diagnostico di primo livello, fondato sull’evidenza scientifica, è stato presentato dall’urologo di riferimento della zona a piccoli gruppi di Mmg (in media 10). Piuttosto che imporre un rigido algoritmo si è preferito produrre un protocollo flessibile, che poteva essere differente da centro a centro, per incorporare le opinioni dei Mmg e degli urologi.
Gli effetti sulla pratica clinica della produzione di questi algoritmi diagnostici condivisi sono stati divulgati recentemente7.
Lo studio ha dimostrato un cambiamento delle routine diagnostiche dei Mmg che si sono allineate maggiormente ai principi dell’evidenza scientifica.
Nel complesso si è verificato un aumento degli accertamenti raccomandati e una diminuzione di quelli ritenuti opzionali o non raccomandati.
Il numero di pazienti sottoposti a esplorazione rettale è incrementato significativamente (circa del 30%) con diminuzione di diagnosi fatte senza l’esecuzione di questo esame (27.5% nella fase 1 verso il 22.4% nella fase 2).
L’utilizzo, fortemente raccomandato da tutte le linee guida, dei punteggi sintomatologici è aumentato di quattro volte.
Il risultato più incoraggiante che è stato ottenuto è la netta riduzione (32%) dell’utilizzo dell’ecografia prostatica transrettale.
Il cambiamento delle routine diagnostiche dei Mmg ha comportato un risparmio del 13.8% delle spese per gli accertamenti di primo livello.
A fianco di questi risultati sicuramente positivi va rilevato però che non sono aumentati i pazienti gestiti autonomamente dai Mmg e, di conseguenza, i tempi per raggiungere la diagnosi sono rimasti invariati.
Alcuni accertamenti non necessari, quali l’urinocoltura, hanno continuato a essere prescritti con un’inaccettabile alta frequenza e nel complesso le routine diagnostiche effettivamente applicate dai Mmg sono risultate ancora lontane dai protocolli ideali, in precedenza condivisi.

Conclusioni


Il trasferimento dell’evidenza scientifica nella pratica clinica corrente è un processo complesso che non può essere demandato solo alla pubblicazione di linee guida, ma che deve prevedere interventi multipli in campo educazionale e organizzativo.
I programmi di shared care basati sulla condivisione di protocolli diagnostici elaborati in ambito locale hanno dimostrato di poter essere un metodo efficace per l’implementazione dei principi della medicina basata sull’evidenza.
Lo studio PRODEST ha confermato che questi programmi sono validi, ma ha anche rilevato che non sono risolutivi e pertanto devono essere affiancati da altri interventi basati sui principi del miglioramento continuo della qualità, che coinvolgano tutte le professionalità organizzative e cliniche interessate alla gestione di una data patologia e che prevedano meccanismi di controllo, verifica e monitoraggio dei risultati ottenuti.