M.D. numero 23, 21 giugno 2006

Terapia
L’insufficienza venosa cronica e le sue complicanze
di Giampiero Avruscio, Responsabile Servizio e Day-Hospital di Angiologia, Ospedale Sant’Antonio di Padova

L’importanza del quadro clinico è correlata all’incidenza, alle complicanze spesso invalidanti o fatali e all’impatto socioeconomico delle manifestazioni più severe.
Più è tempestivo il riconoscimento, e quindi la terapia, minori saranno le sequele

L'insufficienza venosa cronica (IVC) è una condizione clinica conseguente a uno scompenso del funzionamento delle vene periferiche, in cui il ritorno del sangue venoso verso il cuore non è garantito né in posizione ortostatica né in clinostatismo.
Si tratta di una condizione patologica caratterizzata da un impatto socioeconomico non indifferente a causa della sua elevata prevalenza, del costo degli esami necessari durante il percorso diagnostico, del costo dei trattamenti (farmacologici più altri eventuali presidi terapeutici necessari), della perdita di giornate lavorative che impone ai soggetti ammalati.
L’IVC comprende tutta la patologia venosa ostruttiva, dilatativa, congenita. Le cause più frequenti di IVC comprendono le anomalie della parete venosa e delle valvole e le modificazioni prodotte da trombosi venose precedenti, che possono portare a reflusso, ostruzione o entrambi i fenomeni. Le malformazioni genetiche rappresentano invece un movente relativamente raro della malattia.

Sindrome post-trombotica


La classificazione internazionale dell’IVC segue un criterio clinico, anatomico, eziologico e fisiopatologico denominato “CEAP”, in cui vengono considerati il carattere sintomatico o asintomatico della malattia, l’eziologia che può risultare congenita, primaria o secondaria, la distribuzione anatomica superficiale o profonda, e le caratteristiche fisiopatologiche (reflusso, ostruzione o entrambi).
I quadri clinici più caratteristici dell’IVC sono la sindrome post-trombotica e la varicoflebite. La sindrome post-trombotica è una delle complicanze spesso invalidanti della trombosi venosa profonda (TVP), evenienza che riguarda più frequentemente alcune categorie di pazienti considerati particolarmente a rischio. Si tratta di soggetti sottoposti a interventi chirurgici (soprattutto la chirurgia maggiore traumatologica e ortopedica e quella addominale) nei quali si osserva un’incidenza di TVP del 30%, di pazienti paraplegici, di donne in gravidanza, di pazienti con patologia tumorale.
La TVP comporta un sovvertimento dell’emodinamica del deflusso venoso, determinato da distruzione dell’assetto valvolare, ipertensione distrettuale, conseguente incontinenza anche dei rami perforanti, fino all’incontinenza secondaria del circolo venoso superficiale e stasi linfo-venosa cronica con tutte le sequele di segni e sintomi relativi. Più è estesa la TVP e meno tempestivo è l’approccio terapeutico, più gravi saranno i segni della sindrome post-trombotica.
Poiché il quadro dei sintomi generalmente non presenta tratti patognomonicino, il 30-50% delle TVP è asintomatica e l’intensità dei segni e dei sintomi non sempre è correlabile con gravità ed estensione della TVP, la diagnosi deve basarsi anche su altri elementi (figura 1). La determinazione del D-dimero si rivela di una certa utilità più per escludere la presenza di TVP che per confermarla (le cause di falsi positivi sono numerose), mentre l’esecuzione di un ecocolor-doppler consente l’acquisizione di numerosi elementi utili, compresa la visualizzazione diretta delle velocità e dell’emodinamica dei flussi (compresi anche i flussi lenti).
Nel paziente con recente episodio di TVP la terapia si basa sulla somministrazione di anticoagulanti. La maggior parte dei trial ha dimostrato che per stabilire la durata adeguata del trattamento vanno considerati sede ed estensione della trombosi e presenza di fattori di rischio: da 6 settimane a 3 mesi in caso di trombosi isolata a 6-12 mesi o più in caso di TVP prossimale, con fattori di rischio permanenti. L’associazione con elastocompressione risulta generalmente di buona efficacia.

Varicoflebite


Nella varicoflebite, principale complicanza delle varici, prevale l’aspetto infiammatorio, con i classici segni del rossore, edema, dolore, calore e impotenza funzionale dell’arto. L’esordio è rapido e generalmente si apprezza alla palpazione la tipica consistenza cordoniforme dell’asse venoso interessato dal trombo. Anche in questo caso più tempestivo è l’approccio diagnostico e terapeutico, minori le possibili sequele. La varicoflebite è infatti solitamente considerata una patologia di modesta rilevanza clinica e priva di complicanze, ma studi recenti evidenziano come il processo trombotico si possa estendere dalla vena grande safena al sistema venoso profondo nell’8.6% dei casi, dei quali il 10% si complica con embolia polmonare.
Una diagnosi tempestiva, le modificazioni dello stile di vita e soprattutto l’uso mirato di presidi farmacologici oggi a disposizione, come un’eparina a basso peso molecolare (es. parnaparin, molecola che riporta tra le indicazioni il trattamento dell’insufficienza venosa cronica, della tromboflebite acuta superficiale, della varicoflebite e della sindrome post-flebitica), oltre all’impiego di Fans e l’applicazione di mezzi elastocompressivi, possono lenire il corredo sintomatologico, limitare i danni del processo acuto e prevenire o alleviare la gravità delle sequele a distanza (figura 2).