M.D. numero 26, 20 settembre 2006

Clinica
Interazione tra cute e psiche: un caso di neurodermite

Paziente di sesso femminile di 47 anni, con utero fibromatoso che causa metrorragie periodiche. È affetta da un’artrosi lombosacrale che si accentua ai cambi di stagione.
La signora è sposata e ha due figli e da circa un anno il maggiore dei due si è trasferito a Milano. È da allora che la paziente frequenta più assiduamente il mio ambulatorio lamentando i più svariati malanni, con l’ansia che le aumenta fino ad avere attacchi di panico.

Approfondendo il colloquio scopro che è il figlio che ora vive lontano dalla famiglia a provocarle timori e paure, in quanto si è indebitato facendo da garante a loschi personaggi.
Inizia una terapia con alprazolam e i sintomi regrediscono.
Dopo otto mesi ritorna in ambulatorio perché sulla cute della caviglia è comparsa una chiazza eritemato-desquamativa infiltrata con fini crosticine siero-ematiche centrali (figura 1) e riferisce un prurito violento parossistico (neurodermite). Mi racconta anche che la situazione legale del figlio è divenuta seria.
Prescrivo ancora alprazolam, che nel frattempo la paziente aveva sospeso, aggiungendo corticosteroidi locali.
Il quadro clinico regredisce, ma i problemi con il figlio persistono e ricompaiono i dolori lombari che non rispondono a terapia antinfiammatoria.
In questa occasione posso dedicare poco tempo al colloquio e le prescrivo tramadolo.
Dopo una settimana ritorna con il marito, molto arrabbiato con me: dopo l’assunzione di 10 gocce di tramadolo erano comparsi stiramento dell’emivolto sinistro, sensazione di rigidità degli arti a sinistra, disartria e disfagia parziale ai liquidi. Alla comparsa di tali sintomi la paziente si era recata al pronto soccorso, dove sono state eseguite TAC e RM dell’encefalo, risultate negative.
Trasferita in ambiente neurologico le è stata posta diagnosi di disturbo di conversione in paziente ansiosa e distonia iatrogena (da tramadolo).

Riflessioni


Si potrebbe definire la pelle, classicamente intesa come un organo di confine fra il mondo esterno e il mondo interno, un organo di continuità psichica, essendo un mezzo di comunicazione in grado di trasmettere sensazioni interne senza la necessità di utilizzare le parole.
Essa ci separa e ci protegge dal mondo esterno, ma contemporaneamente ci permette di comunicare con gli altri.
L’arrossamento pudico, lo sbiancamento da paura, la sudorazione emotiva sono segni facilmente correlabili, ma quando sulla pelle trovano spazio esibizionismo e bisogno di espiazione essa diventa il luogo dove trovano espressione privilegiata le manifestazioni di disagio psicosomatico, ovvero dermatosi spesso più difficilmente correlabili.
L’interazione reciproca fra cute e psiche affascina, spaventa e preoccupa e presenta ancora molti lati sconosciuti. Tuttavia molte dermatosi sono correlate a nevrosi e talora anche a psicosi.
Uno schema pratico consiste nel distinguerle in:
n dermatosi a carattere meramente psichico: orticaria colinergica, orticaria da stress, prurito essenziale, dermatite artefatta (acne escoriata, patomimie);
n dermatosi aggravate dalla componente emotiva e/o dal disagio psichico: psoriasi, lichen ruber planus, dermatite atopica, ecc;
n dermatosi intermedie in cui lo stress psichico induce l’evento morboso solo in soggetti predisposti (familiarità, genetica?): ofiasi, alopecia areata.
Tale suddivisione, anche se incompleta, serve a sottolineare le limitazioni sociali e i disagi indotti dalle malattie della pelle, che non sono molto facili da gestire anche per un medico esperto.
La guarigione o il miglioramento clinico può progredire o ritardare a seconda dello sviluppo emotivo e della personalità del paziente, ovvero in rapporto all'influenza, rincuorante o demoralizzante, delle persone a lui vicine.
Una delle caratteristiche psicologiche ricorrenti nel paziente dermatologico è costituita da alterazioni della percezione e dell'autopercezione cutanea, infatti l'esperienza clinica in questo tipo di paziente dà enorme rilievo al contatto corporeo.

Antonio Pugliese
Mmg, Castellaneta (TA)
Responsabile Nazionale
Dipartimento Dermatologia AIMEF



Il punto di vista dello psichiatra

l caso clinico descritto appare emblematico di quanto sia difficile gestire la complessità della realtà clinica e di quanta pazienza (pazienza clinica) debba avere il medico per potere accedere alle problematiche dei pazienti.
In particolare lo stato d’ansia evidenziato dal medico non veniva vissuto come tale dalla paziente, che si ritrovava a vivere una situazione di stress legata alle vicende del figlio, vissute inconsapevolmente e senza avere gli strumenti psicologici per potersi gestire emotivamente.
Il modo di esprimere l’ansia e la rabbia sembrano così estrinsecarsi con una mera attivazione psicofisiologica (iperarousal) che pone la paziente in un’area di “rischio psicosomatico”.
Piuttosto che “reagire” emotivamente, la paziente somatizza, attivando tutte le risorse biologiche disponibili (distress) per poter fare fronte alla situazione.
La terapia ansiolitica riesce in un primo momento a contenere il disagio e a determinare un miglioramento del quadro clinico, ma sia per il persistere delle problematiche relative al figlio sia per lo stato di attivazione emotiva della paziente, i sintomi ricompaiono, coinvolgendo altri apparati (dolori muscolari) e dando luogo a un quadro clinico di maggiore complessità.
Appaiono opportune due riflessioni.
1. La prima è legata alla difficoltà obiettiva di gestire tali situazioni. La paziente si è rivolta al proprio medico con un’inusuale frequenza, portando con sé le ansie della vita e la preoccupazione per il proprio figlio, ansie manifestate attraverso una sintomatologia psichica (attacchi di panico) e successivamente psichica e fisica (dolori, prurito parossistico); vi è tuttavia una consapevolezza più o meno palese dell’origine dei propri disturbi da parte della paziente, che tuttavia appare completamente inerme rispetto alla sintomatologia e incapace di gestire le problematiche in modo più congruo. Vi è comunque una compromissione globale del funzionamento.
In casi analoghi la funzione primaria del medico è quella di accogliere la sofferenza, aiutando la paziente a riappropriarsi della capacità di “esercitare sugli eventi un certo controllo” che possa contenere il disagio.
È un passaggio di non facile attuazione. È fondamentale, come ha fatto il collega, l’ascolto e la comprensione delle problematiche della paziente, ma ciò non appare sempre e comunque sufficiente.
È più impegnativo costruire una relazione che consenta al medico di modulare l’intensità del suo intervento nel tempo, attraverso una paziente opera di “contenimento” del disagio, ma attuando gradualmente strategie che spingano il paziente a ritrovare la forza di reagire agli eventi della vita.
Ciò richiede molto tempo e pazienza, il che contrasta con gli impegni del medico, che deve pertanto essere abile nell’utilizzare tecniche psicologiche agili e specifiche per la medicina generale.
2. La seconda riflessione riguarda il trattamento da attuare. Nel caso in esame sarebbe stato indicato l’utilizzo già nelle fasi iniziali di un antidepressivo, protraendo il trattamento per il tempo necessario, non inferiore a sei mesi. La prescrizione della benzodiazepina, se infatti appare utile nella gestione immediata dei sintomi ansiosi, è meno risolutiva delle reali problematiche della paziente.
I sintomi infatti depongono per un quadro depressivo a prevalente espressività somatica e appaiono inoltre persistenti, pervasivi e compromettono la stabilità della paziente e il suo funzionamento globale.
Un trattamento con specifico antidepressivo, in monoterapia, evitando l’associazione con benzodiazepine, può risultare di buona efficacia clinica, consentendo una progressiva remissione dei sintomi e una maggiore possibilità di aiutare la paziente dal punto di vista psicologico.
È naturalmente importante prefigurarsi una fase iniziale di trattamento (i primi 20 giorni circa) in cui i controlli clinici devono essere più ravvicinati.
Ciò consente di instaurare un’efficace alleanza terapeutica, un migliore controllo dei primi giorni di trattamento (è noto il periodo di latenza degli antidepressivi e la possibilità di una iniziale recrudescenza dei sintomi ansiosi) e una complessiva gestione del caso clinico, con minori possibilità di acuzie future che richiedono continui interventi da parte del medico.
Un’ampia letteratura testimonia come mente e corpo siano aspetti diversi di un unico modo di essere e che qualsiasi sintomatologia debba essere considerata ponendo al centro dell’interesse del clinico il paziente, con la sua storia e le sue vicende passate e attuali.

Approfondimento


I disturbi mentali si associano a un elevato carico di disabilità e di costi economici e sociali che pesa sui pazienti, sui loro familiari e sulla collettività. La loro crescita è costante ed è sempre più connotata da variabili che nel tempo hanno modificato il decorso naturale delle principali patologie psichiatriche.
Mentre risulta sempre più rara l’osservazione di crisi isteriche, ci si deve occupare sempre di più di condizioni di disagio psichico a prevalente espressività somatica.
Nella pratica clinica tutto ciò si traduce nell’esigenza di integrare le conoscenze verso un definitivo superamento della dicotomia mente-corpo, sviluppando processi diagnostici e terapeutici capaci di fornire risposte complete di fronte alla complessità dei quadri clinici di comune osservazione.
Si dovrà quindi parlare sempre meno di psiconcologia, psicodermatologia, psicocardiologia (termini che possono creare ulteriore confusione evocando l’idea di nuove branche specialistiche) ed affermare sempre di più l’importanza di un approccio clinico globale o psicosomatico: non esistono le patologie “psicosomatiche”, ma l’uomo malato, con la sua storia, le sue relazioni, il suo modo di essere (medicina “patient-centred”).
La dicotomia mente-corpo, da sempre oggetto di studi e riflessioni, deve quindi ritenersi definitivamente superata: qualsiasi malattia è insieme fisica e psichica, ogni sofferenza psichica comporta implicazioni fisiche e ogni patologia organica ha risvolti psicologici che non possono essere ignorati.
Si rende pertanto necessario anche in dermatologia introdurre nella pratica clinica una valutazione psicologica tesa a evidenziare la presenza di disturbi emotivi, in particolare dell’ansia e della depressione, la cui presenza può condizionare l’evoluzione di quadri organici e determinare un’amplificazione dei sintomi dermatologici (per esempio, il prurito) con continue richieste di intervento medico.
Negli ultimi anni, accanto ai noti disturbi psichiatrici, si sta polarizzando sempre di più l’attenzione sulla personalità dei pazienti quale determinante nello sviluppo di quadri patologici ad espressione somatica, come l’alopecia, la vitiligine o la psoriasi.
Ciò ha portato allo sviluppo dei Criteri diagnostici per la ricerca in psicosomatica (DCPR), il cui obiettivo è di evidenziare quei tratti o caratteristiche di personalità più frequentemente associati a “patologie psicosomatiche”.
Ne sono esempio la demoralizzazione, l’alexitimia (in cui non vi è piena consapevolezza del proprio mondo interiore - le emozioni negate - e il corpo è il solo mezzo per proiettare fuori dalla propria sfera psichica ciò che lo tormenta), la presenza costante di umore irritabile.
La dermatologia si presenta quindi come un’affascinante campo di ricerca per la comprensione dei meccanismi della somatizzazione e del rapporto mente-corpo ed è anche il campo in cui l’approccio terapeutico deve mirare alla integrazione degli strumenti disponibili, sia di tipo farmacologico sia psicoterapeutico.
Una maggiore dimestichezza del medico di medicina generale in tale ambito può essere di notevole aiuto nella mediazione tra le due aree specialistiche, fungendo da catalizzatore di istanze spesso contraddittorie e, soprattutto, apportando un valido contributo che nasce, grazie alla tipicità dell’osservazione longitudinale, dalla profonda conoscenza del paziente e delle sue caratteristiche di personalità.

Ferdinando Pellegrino

Psichiatra, Direttore UO Salute Mentale
Asl Salerno 1, Costa d’Amalfi