M.D. numero 32, 1 novembre 2006

Diario ambulatoriale
Il lavoro in team in medicina di famiglia - Cronaca di una settimana
di Giuseppe Maso, Medico di famiglia - Venezia, Responsabile Insegnamento Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine
Alessandra Semenzato, Infermiera di famiglia - Venezia, Docente Scuola di Medicina di Famiglia, Università di Udine

Lunedì
Gloria mi ha cercato al telefono l’altro giorno, l’ho confusa con un’altra persona e quando mi ha detto che aveva abortito e che mi voleva parlare l’ho invitata il giorno seguente. Quando è entrata in studio mi sono accorto che non l’avevo mai vista e lei, quasi intimorita e sulle difensive, mi ha sporto alcune carte.
Aveva appena avuto un aborto spontaneo e da allora, due settimane fa, si è sentita priva di forze e senza volontà; si è recata anche in Pronto Soccorso da dove è stata dimessa con diagnosi di “astenia”.
Raccogliendo la storia, dalla diffidenza è passata a una grande apertura. Era la sua prima gravidanza, era una cosa importantissima e l’aborto è stato un trauma.
Gloria fa la commerciante, è barista, lavora con la madre e con il suo compagno. Quando le ho chiesto cosa ne pensassero i membri della sua famiglia su quanto le era successo mi ha guardato e, con gli occhi lucidi, mi ha detto: “Niente, proprio niente, mia madre è contenta, così posso continuare a lavorare e al mio compagno pare proprio che non gliene importi alcunché”.

Martedì

Constatare il decesso di una persona che si è seguita per anni è un evento tristissimo. Altrettanto triste è l’espletamento di tutte le formalità burocratiche che ne conseguono. È obbligatorio compilare la scheda per l’Istituto Nazionale di Statistica in cui vanno riportate le cause di morte. La scheda è molto tecnica, fredda, impersonale e mi ha sempre messo a disagio.
Ci viene chiesto di riportare la sola patologia che ha dato inizio alla catena di processi morbosi responsabili del decesso. Per patologia ovviamente si intende una malattia codificabile, un evento chiaramente identificabile in termini biomedici.
Ma non si muore così. Si muore perché si soffre di solitudine, perché si è poveri, perché non si hanno mezzi intellettuali, perché non si è assistiti, perché si è depressi, perché i problemi sono tanti e si sommano e si accavallano. Si muore per disagio sociale e per problemi psichici. Si muore per la concomitanza di diverse patologie, perché si è vecchi e anche perché si è stanchi di vivere.
Non esiste quasi mai una sola causa di morte, ne esistono tante. Così come il nostro approccio ai problemi della gente deve sempre essere bio-psico-sociale, così dovrebbe essere nei confronti delle cause di morte. Le statistiche Istat ne risulterebbero probabilmente stravolte.

Mercoledì

I media stanno facendo un gran battage sui farmaci spegni memoria. Si legge che il “disturbo da stress post-traumatico” colpisce la metà delle persone che hanno avuto esperienze dolorose; gli incubi e l’ansia andrebbero curati con questi farmaci e in particolare con il propranololo. Si tratta di una molecola che, come altre della stessa famiglia, vengono usate nella cura dell’ipertensione e dell’infarto del miocardio.
Questa categoria di farmaci agisce sull’amigdala, parte del cervello deputata alla registrazione del ricordo doloroso mediata da adrenalina e noradrenalina.
Ovviamente vi sono anche molte polemiche sull’uso di questi farmaci per questa finalità e nascono molti problemi etici.
Sembra una cosa nuova, ma lo è solo in parte. Coloro che hanno qualche decennio di professione alle spalle ben ricordano come i betabloccanti siano stati usati come ansiolitici e come venissero anche usati per gli attacchi di panico.
Anni fa molti colleghi li usavano prima di parlare in pubblico durante i congressi.
Certo è che sono assunti da milioni di persone e sulla totalità di queste essi hanno anche un effetto sul cervello. Effetto pochissimo studiato. Forse hanno anche un certo grado di responsabilità nella sottovalutazione dell’infarto da parte dei pazienti.
Sarebbe molto interessante acquisire maggior conoscenza di questo fenomeno; ho sempre avuto l’impressione che coloro che assumono betabloccanti dopo un infarto sottovalutino quanto sia loro successo e spesso non si attengano alla terapia e a uno stile di vita adeguato. Ma si tratta di un’impressione, andrebbe verificata.

Giovedì

“Dottore, la settimana scorsa mi sono fatto male a una caviglia giocando a calcetto e mi fa ancora male. Sono venuto perché mi prescriva degli accertamenti”. Estrae dalla tasca un foglietto sgualcito in cui, per grafia incerta e per errori ortografici, si legge a fatica “raggi e risonanza magnetica”.
“Ma chi ti ha consigliato di fare questi esami?”. “Il tira-ossi!”.

Venerdì

Non pensavamo di impiegare tanto tempo per togliere una verruca. Accompagnata dal padreno e dalla sorella, Chiara è entrata in ambulatorio sorridendo come una ragazza solare ed estroversa, ha diciassette anni e una grossa verruca plantare.
Ha già provato con la crioterapia senza risultato e per questo ha fissato un appuntamento con noi, per asportarla chirurgicamente. L’intervento, per cui di solito impieghiamo pochi minuti, è durato ben più di un’ora, con una pausa intermedia di mezz’ora.
Chiara era in preda al panico. Dalle sue urla di dolore al solo sfiorarle la cute, dai suoi sguardi profondi e angosciati rivolti alla sorella che le teneva la mano, dalle sue parole emergeva uno stato inconscio di profondo terrore. Perfino la voce si era modificata: apparteneva a una bambina di dieci anni. Noi stessi eravamo attoniti, colti impreparati da tali reazioni inaspettate.
Presa in disparte la sorella, le abbiamo chiesto se avesse avuti incidenti o traumi nell'infanzia. A dieci anni Chiara era stata investita da un'auto, riportando alcune contusioni di poco conto.
Pareva un episodio dimenticato, lontano nel tempo, di cui né lei né i familiari avevano finora capito la portata delle ferite, inferte al suo inconscio. Ferite che a distanza di sette anni hanno drammaticamente riaccesa la paura del dolore. La ragazza non urlava per il dolore che provava, ma per la paura di sentirlo. Non siamo stati in grado di calmarla né con le parole né con i gesti; la ragione difficilmente domina l’inconscio.
Abbiamo concluso il piccolo intervento insoddisfatti dal punto di vista tecnico e avviliti per non essere stati in grado di gestire la situazione.
La malattia spesso assume il significato di ciò che rievoca.

Sabato

Stavo eseguendo una paracentesi a una mia paziente ricoverata in una residenza sanitaria per anziani, quando è entrato nella stanza il marito accompagnato da un signore elegante e in evidente disagio in quel posto.
La signora è allettata, affetta da ascite refrattaria e respira con un ventilatore automatico.
Ho fatto attendere il signore fuori della stanza in modo da terminare la manovra che stavo eseguendo; quando è rientrato si è presentato come notaio e mi ha chiesto di fare da testimone perché doveva ottenere il consenso dalla signora a vendere la sua casa; lei non può firmare, l’artrite reumatoide le ha distrutto le mani. Il notaio ha letto frettolosamente una formula di rito e la signora ha annuito con la testa. Deve vendere la casa per pagare la retta della residenza in cui si trova.
I suoi occhi si sono riempiti di lacrime e anche i miei si sono fatti lucidi.