M.D. numero 33, 8 novembre 2006

Note stonate
Lapsus e oblii delle circolari ministeriali

Con circolare n. 3 del 3 ottobre 2006, il ministero della Salute si è preoccupato di chiarire alcuni punti riguardanti la vendita al pubblico, in esercizi diversi dalle farmacie, dei farmaci da banco o di automedicazione e di tutti i farmaci o prodotti non soggetti a prescrizione medica, in applicazione dell’art. 5 del DL 4 luglio 2006, n. 223. Ritengo tali chiarimenti un’ottima cosa, a parte il fatto che il ministero si è dimenticato di un particolare: questi prodotti sono da sempre venduti anche a bordo delle navi da crociera in “farmacie” che però farmacie non sono (non è mai esistita la figura del “farmacista di bordo”, e la vendita è da sempre affidata alle infermiere o, in mancanza, al medico di bordo). Tale situazione, più che ai limiti della legalità ne era completamente al di fuori e si è mantenuta attiva per il semplice motivo che far rispettare la legge avrebbe voluto dire creare uno scompiglio inimmaginabile.
Attualmente però la legge è cambiata almeno in parte, anche se il legislatore ha voluto sconsideratamente mantenere l’obbligo della presenza di un farmacista nei luoghi di vendita dei farmaci, questa poteva essere l’occasione per affrontare una buona volta il tema della vendita dei farmaci sulle navi battenti bandiera italiana. “Ah, perché esistono anche le navi da crociera?” si chiederà qualcuno. Sì, esistono e sono quei posti strani in cui un medico non abilitato all’odontoiatria può ancora otturare carie e cavare denti (sempre grazie al fatto che gli “esperti” si sono dimenticati dell’esistenza di questi luoghi). Possibile che gli esperti del ministero non siano mai andati in crociera? O forse vanno solo sulle navi battenti bandiere a stelle e strisce?
z Fatali incongruenze
Ma le incongruenze non finiscono qui. Desidererei porre l’attenzione su altri punti della circolare ministeriale che ne contiene 12 in tutto. In merito alla “presenza del farmacista”, il punto 3 specifica: “Anche se non è tenuto a consegnare personalmente a tutti i clienti ogni singola confezione di medicinale, il farmacista è obbligato ad una assistenza «attiva» al cliente”.
Il punto 4 è dedicato all’acquisto in modalità “self service” e precisa che “nell’apposito reparto, il farmaco può essere prelevato direttamente dal paziente, fermo restando l’obbligo per il farmacista di rispondere ad eventuali richieste da parte dei pazienti e di attivarsi nel caso risultasse opportuno il proprio intervento professionale”.
Dunque, al punto 3 di parla di “clienti”, e al punto 4 di “pazienti”.
Pazienti? Da dove viene il lapsus di chi ha formulato la circolare? L’italiano è una lingua che si presta facilmente a equivoci, ma c’è un discreto consenso sul fatto che i pazienti sono quelli del medico e che il farmacista non ha pazienti, ma clienti.
Eppure un funzionario, non certo sprovveduto, di un ente ufficiale come il ministero della Salute ha fatto confusione fra i due termini in due paragrafi a breve distanza l’uno dall’altro. Con lapsus di questo genere la psicanalisi non c’entra, e d’altra parte non occorre un esperto di semantica per capire che in casi come questi la confusione dei significanti nel cervello di chi parla o scrive sottende la confusione dei significati nella realtà. E la confusione in effetti regna sovrana in questo settore. Se un biologo si azzardasse a fare diagnosi o a dare consigli terapeutici verrebbe crocifisso dall’art. 348 del Codice Penale. Se a farlo è un farmacista, non accade nulla.
Anzi, gli stessi farmacisti, ben lontani dal farlo di nascosto, reclamano questa funzione diagnostico-terapeutica a gran voce per giustificare la propria indispensabilità anche oggi che di farmaci non ne preparano più. E il legislatore ha abboccato in pieno quando, permettendo la vendita di alcuni farmaci fuori dalle farmacie, ha reso però obbligatoria la presenza del farmacista. Obbligatoria a che scopo?
I farmaci vendibili fuori dalle farmacie non sono preparazioni galeniche. E adesso, nel fornire chiarimenti sulla legge, l’estensore di questa circolare conferma che il farmacista serve a dare un’assistenza “attiva” rispondendo a eventuali richieste dei “pazienti”.
Che genere di richieste? Cerchiamo di non dimenticare che persino le informazioni sulla posologia sono di competenza del medico e non del farmacista.
Sarà anche vero che molti medici non le danno o le danno in modo scorretto, ma questo è un problema che riguarda la vigilanza sulla professione medica e non può essere risolto ignorando l’omissione e affidando queste informazioni ad altre figure professionali con diversa qualificazione. Se poi le informazioni dovessero riguardare indicazioni e controindicazioni (che implicano necessariamente un precedente procedimento diagnostico e una responsabilità terapeutica), questa sarebbe un’invasione delle competenze mediche così netta e plateale da non meritare neppure commenti. Eppure è quanto i farmacisti rivendicano e quanto il legislatore, ignaro della materia su cui legifera, serenamente concede. Di fronte a errori così marchiani da parte di funzionari così qualificati non è più nemmeno il caso di discutere. Non ci resta che piangere.

Antonio Attanasio

Medico di medicina generale
Mandello del Lario (LC)



A proposito della scarsa adesione dei Mmg

Vorrei dare il mio contributo in merito all’articolo “Scarsa partecipazione dei Mmg” (M.D. 2006; 26: 16-17; 19: 16). Il problema, secondo me, trascende le giuste considerazioni del collega Giuseppe Grasso e dalle giustificazioni ampiamente condivisibili del collega senologo.
Il fatto che i Mmg siano poco sensibili alla chiamata dei colleghi specialisti o degli stessi colleghi Mmg va ricercato nel DNA della medicina di famiglia. Parliamoci francamente e senza peli sulla lingua, fino a non pochi anni fa, prima che ci fosse il blocco delle assunzioni negli ospedali e prima o poco dopo l’avvento delle Asl l’aspirazione di ogni laureato in medicina era quello di entrare in un reparto ospedaliero o universitario; l’iscrizione a una qualunque specialità era considerata la normale continuazione del corso universitario. Se però tutto questo non riusciva, restava sempre la “mutua”, una parola pronunciata in sordina perché evocava il refugium peccatorum dei reietti, di quelli che non erano riusciti a far di meglio.
Questo status di medico di serie B “i medici della mutua” se lo sono visto tatuare a fuoco sulla pelle, come marchio di infamia. Si autoconvincevano che non potevano avere titolo per dire la loro opinione in qualsiasi consesso scientifico; non potevano competere con specialisti, ospedalieri e figuriamoci con i prof universitari e allora perché esporsi al ludibrio di uno spocchioso collega che eventualmente ti avrebbe zittito facendo pessime considerazioni sul tuo lavoro?
Relegare il Mmg in un angolo e metterlo in condizioni di “non parlare” e soprattutto “di non pensare” è stato anche il perverso esercizio di controllo di una classe politica che fortunatamente sembra essere scomparsa; ma i danni provocati si sarebbero rivelati così profondi da incidere il genoma stesso del Mmg.
Questo comportamento ha isolato sempre di più il “medico della mutua” che per anni si è rinchiuso nel suo studio e in modo a volte perverso ha cominciato a far del male a se stesso e alla categoria con comportamenti qualche volta poco professionali, stigmatizzati in modo grottesco dal dott. Tersilli nel film “ Il medico della mutua” interpretato da Alberto Sordi. Quel medico per interpretare il ruolo che le istituzioni e gli stessi pazienti gli avevano cucito addosso, non aveva la necessità di partecipare a eventi scientifici e quando timidamente vi partecipava, al momento dell’iscrizione nasceva l’imbarazzo di confessare il marchio dell’infamia: “mutualista”.
Oggi le cose sembra comincino a cambiare.
Purtroppo questo cambiamento di rotta non è ancora percepito fino in fondo da tutti i colleghi.
I medici di famiglia non riescono ancora oggi a scrollarsi di dosso quel senso di inferiorità. Non hanno ancora la forza d’animo di presentarsi al confronto scientifico né con altri medici di famiglia né tanto meno con lo specialista di turno.
Quest’anno al Wonca Europe di Firenze c’erano solo 156 medici italiani e si poteva pensare che la scarsa presenza fosse da attribuirsi all’eccessivo costo dell’iscrizione e alla lingua inglese come lingua ufficiale del Congresso, ma tre mesi prima a Caserta, a un convegno di Mmg di valenza internazionale, sono mancati i medici di famiglia della Campania con tanto di quota d’iscrizione pagata.
La strada forse è ancora lunga, ma certamente non più in salita ed irta come quando qualche pioniere della riscossa dei Mmg ha iniziato, molto timidamente, a fregiarsi di essere “un medico di famiglia”.

Aquilino Polito
Medico di medicina generale, Caserta
Direttore www.snamidcaserta.it