M.D. numero 36, 29 novembre 2006

Riflessioni
Medico-paziente: affinare le competenze per gestire meglio la relazione
di Carmela Zotta - Medico di medicina generale, Milano, AIMEF e Paola Pioldi - Psicologa Psicoanalista, Milano

L’idea di presentare un articolo sul tema medico-paziente è nata dall’incontro tra due professioniste di diversa formazione, ma entrambe impegnate in relazioni d’aiuto: un medico di famiglia e una psicoanalista. Il confronto si è repentinamente evoluto in un colloquio in cui l’attento ascolto da parte della psicologa e la capacità di narrarsi mettendosi in discussione del medico ha permesso di individuare uno spazio di dialogo possibile.
Questo scritto, che si snoda dall’assioma che “la tutela del paziente passa attraverso la tutela del medico”, aspira ad allargare questo spazio a quei professionisti che sentono l’esigenza di comprendere meglio cosa accade nelle relazioni interpersonali nel setting in cui operano.
Una delle ipotesi che desideriamo suggerire è che una chiave di lettura diversa per interpretare ciò che accade in studio potrebbe aiutare il medico a gestire meglio sensazioni ed emozioni che i pazienti inevitabilmente suscitano


La relazione tra il medico curante e il paziente è un aspetto che va valorizzato, in quanto rappresenta la dimensione più gratificante e creativa dell’impegno professionale del medico di famiglia.
Bisogna riflettere sul valore centrale del proprio ruolo, di come proteggerlo per continuare a gratificarsi nonostante la scomoda posizione e di come dare voce all’istanza fondamentale per la quale, in teoria, dovrebbe organizzarsi e muoversi tutto l’apparato sanitario: l’incontro medico-paziente che rappresenta un fattore importante in quanto agente terapeutico soprattutto per alcune patologie, e come tale è da proteggere e valorizzare.

Complessità del ruolo


Le richieste e le attese che pervengono dai diversi fronti sono sovente in contrasto tra loro e relegano il medico in un ruolo paradossale di mediazione; inoltre all’insoddisfazione economica e dell’organizzazione del lavoro si aggiunge l’amarezza di non essere riconosciuti e apprezzati per il proprio lavoro quotidiano.
Fermo restando che il compito principale del medico di famiglia è quello di tutelare la salute, le competenze che gli vengono richieste sono multiformi e articolate su diversi piani.
Oltre alla capacità clinica sono indispensabili quelle abilità relazionali che permettano al paziente di sentirsi preso in carico come persona e riunificato in un quadro complessivo che gli restituisca la sua immagine intera.
Il significato profondo dell’incontro tra medico di famiglia e paziente risiede nella capacità del primo attore di ridare senso d’integrità al secondo.
L’apparato sanitario così come è costituito tende a offrire un’alta professionalità tecnica, ma pone poca attenzione agli aspetti umani e psicologici dell’uomo nei confronti della malattia, con la conseguenza che il paziente si sente frammentato o parcellizzato nei suoi apparati od organi sofferenti.
È il medico di famiglia che, tirando le fila della situazione clinica, dovrebbe restituire al malato un senso di unità. Si arguisce che parte del lavoro risieda in un rapporto di counselling. Per questo crediamo sia indispensabile una minima formazione, che consenta al medico di comprendere e affrontare meglio le dinamiche in gioco, ma anche di vivere meglio il suo ruolo con soggetti difficili e intrattabili.

Dinamiche più frequenti


Quando il paziente si presenta in ambulatorio è spesso (o sempre) in uno condizione di regressione; è la natura stessa della malattia che induce questo stato, in quanto rende più deboli e in balia di qualcosa che non si riesce a gestire da soli. Il malato riconosce la competenza e il sapere del medico e ne percepisce l’autorità e questo lo mette nella condizione di sentirsi più piccolo (relazione asimmetrica). Ogni persona ha il proprio modo di rapportarsi all’autorevolezza (concetto diverso di autorità) e questa modalità si rivela nella relazione medico-paziente presentandosi essenzialmente in tre varianti:

  • paziente remissivo/passivo;
  • paziente aggressivo/conflittuale;
  • paziente assertivo/collaborativo.
Paziente remissivo/passivo

È il paziente che accetta ed esegue pedissequamente i consigli, che esperisce come direttive od ordini indiscutibili. Generalmente il medico è vissuto come “colui che possiede la magia”, quindi la collaborazione è scarsa, in quanto l’altro tutto sa e tutto può. Questi pazienti possono apparire “facili”, in realtà quello che generalmente promuovono nell’altro è un senso di scarsa soddisfazione e di incertezza, in quanto è difficile intuire cosa provano e cosa pensano, perché percepiti come troppo compiacenti.
Responsabilizzarli nel corso del tempo e pazientemente è un’impresa faticosa, ma sfatare il mito dell’onnipotenza del medico e renderli più partecipi e consapevoli del fatto che lo stato della loro salute dipende anche da loro, può rivelarsi un percorso soddisfacente, almeno in alcuni casi.

Paziente aggressivo/conflittuale

Rappresenta il paziente che tende a opporsi e a mettere in discussione, anche con un atteggiamento saccente, le decisioni e/o le proposte del medico e dubita delle sue competenze, quasi a dimostrare di saperne di più e il medico è vissuto come competitore. Scarsamente consapevole e arrabbiato per la sua inferiorità, reagisce facendosi “grande” in modo abnorme e inopportuno.
Non bisogna stare al gioco, piuttosto si deve cercare di definire esattamente le competenze, valorizzando le loro come persone (non solo come pazienti) e le proprie come curante. Può accadere anche che decidano di rivolgersi a un’altra figura professionale.
Al contrario può presentarsi come “lagnoso”, quello che “ne ha sempre una” e che con le continue lamentele mette in discussione, anche se indirettamente, le capacità di cura del medico, facendolo sentire inadeguato. Questa forma di aggressività è più subdola, ma altrettanto efficace nel creare disagio.
Generalmente la domanda inconscia di questi pazienti nei confronti del medico valica i confini di quella che dovrebbe essere la relazione medico-paziente: questi soggetti esprimono non tanto il bisogno di essere curati, ma di “essere presi in cura”. La tendenza è quella di investire il medico di tutti i loro bisogni e disagi esistenziali, aspettandosi una risposta. Questo è uno dei motivi per cui, seppur sempre malati, non prendono in considerazione il fatto di curarsi altrove, anzi quasi suscitano questo desiderio nel medico.
In questi casi potrebbe essere utile demandare il paziente con tendenza a somatizzare i disagi psichici a uno psicologo, facendo sì però che non si senta “scaricato”, ma aiutato da un’altra figura professionale oltre che dal suo medico di famiglia, che comunque dovrebbe rimanere il punto di riferimento.
Un sottoinsieme di questa categoria è il paziente svalorizzante, quello che per esempio chiede solo l’impegnativa per le visite specialistiche, spesso decise arbitrariamente da lui stesso. È una modalità per svilire il medico e per tenerlo a debita distanza, un atto aggressivo, spesso irritante.
Una primo tentativo per avvicinarsi al paziente potrebbe essere quello di chiedergli con tranquillità se davvero ha così scarsa fiducia come sta dimostrando e per quali motivi. A volte questo riesce a spiazzarlo, altre il paziente oppone il classico “Lei non è un… (specialità del medico)”. In alcuni casi vale la pena motivare il proprio disaccordo, ossia non richiedere una fiducia acritica, ma convincere l’altro della bontà della propria scelta. Anche questo tentativo all’inizio può richiedere un investimento di tempo, ma se la tecnica funziona, lo si recupera ampiamente.

Paziente assertivo/collaborativo


È il paziente che riesce ad assumersi parte della responsabilità della malattia, a comprendere ciò che il medico propone ed eventualmente a discuterne in una prospettiva comune. Con questi pazienti è gradevole lavorare, sono dei buoni alleati. L’insidia sta nel fatto che a volte questi soggetti tendono a occultare particolari generalmente legati allo stato emotivo, sia per un senso di pudore sia per non deludere il medico (come l’ansia nell’affrontare alcune visite o esami).
Con questi pazienti sarebbe bene mantenere la distanza gerarchica, non colludere con la loro seduzione (intesa come piacevolezza nel riceverli) e porre attenzione se, proprio in virtù della buona relazione, si sentano impediti nell’esprimere maggiormente le loro fragilità (che spesso appartengono alla dimensione irrazionale).
È risaputo quanto sia difficile e sconsigliabile curare parenti, amici e colleghi, proprio perché viene a mancare il giusto distacco, non solo emotivo, ma anche gerarchico.
Naturalmente non sempre lo stesso soggetto, pur avendo una tendenza di base che lo caratterizza, reagisce con il medesimo atteggiamento, questo per la complessità delle variabili in gioco. Ne consegue che ogni incontro rimane un’incognita a sé, per questo è bene sospendere le attese, cercando di accogliere il meglio possibile di quello che il paziente porta di volta in volta.

Osservazioni


Un elemento difficile da tenere in considerazione per chiunque è che, di norma, gli altri ci rimandano dei nostri aspetti che non sempre sono riconosciuti da noi. È più o meno così che proviamo le nostre simpatie o antipatie, che entriamo in empatia o meno, che ci identifichiamo o rimaniamo distaccati.
È bene tenere presente che, per quanto bravi professionisti, ognuno di noi è soggetto a umori, sensazioni, emozioni e a tutto ciò che appartiene alla sfera emotiva e che, a nostra volta, comunichiamo sensazioni all’altro.
Porre una certa attenzione alla comunicazione non verbale del paziente potrebbe rivelarsi un aiuto per inquadrarlo meglio: postura, sguardo, gestualità, tono, sono indici che rivelano lo stato d’animo del nostro interlocutore.
Sarebbe utile affrontare con giusta distanza sia quei pazienti che ci gratificano troppo sia quelli che ci attaccano e fare attenzione a quei malati che idealizzano la figura del medico, anche se sovente è repentina un’inversione di rotta, perciò è importante valutare bene che tipo di relazione instaurare con ogni paziente. Bisogna evitare di sentirsi impotenti di fronte a quei pazienti che mal rispondono alle terapie o alle cure il cui esito non dipende solo dal medico, oppure al contrario di colpevolizzarli (questo avviene il più delle volte inconsciamente, ma il malato lo percepisce e ancora meno collabora).

Inflluenze delle diverse culture


È ricorrente doversi confrontare con un’utenza di diversi ceti socio-culturali dove la decifrazione dei codici, non solo linguistici, si complica. Oggi il fenomeno dell’immigrazione ci costringe a una lettura sempre transculturale dei fenomeni. La cultura influenza, se non determina, il rapporto che si ha con la malattia e con chi è preposto a curarla e quello che avviene in uno studio medico è un confronto fra due culture, oltre che una prestazione professionale.
Questo rappresenta un ulteriore carico di lavoro del medico di famiglia, che non può improvvisarsi anche sociologo o antropologo, ma dovrebbe però riconoscere le proprie difficoltà e quelle dell’utente, che si accosta al nostro concetto di malattia e al nostro modello di cura e che stenta a capire e a orientarsi.

Conclusioni


Non si può richiedere ai medici di famiglia di essere anche psicoterapeuti, ma dato che l’oggetto è l’essere umano nella sua complessità corporea e psichica, è bene che tra i due interventi, quello medico e quello psicologico ci sia collaborazione e che i professionisti di entrambe le discipline abbiano conoscenze comuni.
Ci piace la definizione di mente che è nata dalla collaborazione tra psicologia cognitiva e neuroscienze e che recita: “la mente nasce e si forma da uno strato biologico, che a sua volta interagisce costantemente con l’ambiente e non si può prescindere dalla loro continua e reciproca influenza”.
L’argomento trattato è ampio e complesso e siamo consapevoli che questo articolo non può che essere estremamente riduttivo, ma speriamo che i colleghi trovino qualche spunto di riflessione.
L’intento è quello di fornire una chiave di lettura diversa, che potrebbe essere uno strumento di cui avvalersi per affrontare momenti di disagio, ma soprattutto mettere a disposizione dei medici le competenze psicologiche che possano aiutarli a vivere meglio il proprio lavoro e non solo.
L’obiettivo è ambizioso, ma si può iniziare, o meglio continuare, perché vi sono diverse esperienze in merito, per esempio i gruppi Balint, che ancora oggi trovano la loro applicazione nelle aree più diverse di chi opera nelle relazioni d’aiuto.