M.D. numero 38, 13 dicembre 2006

Management
Dispepsia alla ricerca di identità
di Cesare Tosetti - Medico di medicina generale, Porretta Terme (BO), Area Gastroenterologica Simg

Il dibattito scientifico sulla dispepsia è in fermento in tutto il mondo. Purtroppo le linee guida cliniche sulla malattia sono gestite quasi esclusivamente dagli specialisti senza che i Mmg possano contribuire a impostare le necessità gestionali

La “questione dispepsia” continua a essere un argomento di notevole interesse. Le motivazioni sono evidenti: si tratta di un grosso contenitore che i ricercatori allargano o stringono, poiché il contenuto è costituito prevalentemente da sintomi a patogenesi vaga piuttosto che da patologie organiche. Se per le patologie organiche abbiamo una serie di possibilità diagnostiche e terapeutiche consolidate, per quanto riguarda le forme cosiddette funzionali i legami tra riscontri fisiopatologici e terapeutici risultano deludenti.
L’American College of Gastroenterology (ACG) e l’American Gastroenterology Association (AGA) nel 2005 hanno pubblicato un aggiornamento delle proprie linee guida (Am J Gastroenterol 2005; 100: 2324-37; Gastroenterology 2005; 129:1753-5).
Tali linee guida si presentano nel segno della continuità e non per niente sono pubblicate a nome di Nicholas Talley, ricercatore australiano con interesse prevalentemente epidemiologico e che da almeno un decennio rappresenta il punto di riferimento internazionale per ogni attività di rilievo nel campo della dispepsia.
Le indicazioni riprendono le tematiche dominanti, rivisitandole rispetto alle nuove evidenze pubblicate. Poiché in questo lasso di tempo non si sono avuti reali progressi in campo fisiopatologico e terapeutico, Talley e coll. si sono impegnati a rivalutare la visione consolidata. Sono quindi riproposti gli argomenti storici (tabella 1).
La chiave del problema rimane nascosta. Innanzitutto l’equivoco di base: dispepsia letteralmente significherebbe indigestione (dys-peptos, “bad to digest”), quindi una sindrome riferibile a sintomi derivanti a seguito di processo digestivo. Questa rimane l’interpretazione comune in tutti gli studi medici del mondo che non siano quelli dei ricercatori anglosassoni, i quali intendono per dispepsia il sospetto di malattia peptica (in primis ulcera della mucosa gastroduodenale) e quindi i sintomi spesso presenti a digiuno o di notte, possibilmente associati con la malattia da reflusso gastroesofageo.
Il gruppo di esperti riunito nella Consensus Conference Roma I e II era giunto a un compromesso includendo nella dispepsia due categorie sintomatologiche, quelle dolorose (legate a patologia peptica) e quelle non dolorose (legate a sintomi posprandiali, di ancora difficile inquadramento fisiopatologico), escludendo dal concetto di dispepsia i quadri clinici dominati da sintomi da reflusso gastroesofageo.
Purtroppo gli anglosassoni hanno voluto denominare le sindromi non dolorose col termine di “discomfort”, che nei Paesi di origine rimanda ancora a una sensazione affine al dolore, per cui tutto l’asse dell’interesse si sposta sulla malattia peptica.

Linee di tendenza mondiali




Nel mondo esistono differenti linee di tendenza (tabella 2). La principale riguarda i ricercatori interessati alla malattia peptica, che hanno sviluppato efficaci protocolli rispetto alla malattia da reflusso gastroesofageo e tendono a includere tale patologia nel contenitore della dispepsia (come nelle linee guida inglesi del National Institute of Clinical Excellence 2004, www.nice.org.uk).
Un’altra grande linea di tendenza riguarda i ricercatori interessati all’infezione da Hp che tendono perciò ad applicare questa ipotesi nel maggior numero di patologie possibile.
Una terza linea comprende un gruppo di ricercatori che continuano ad applicarsi a ricerche di fisiopatologia per chiarire i meccanismi delle difficoltà digestive in assenza di malattie organiche, trovando al momento più difficoltà che certezze.
Dal mix di queste esperienze Talley e coll. mediano linee guida politically correct che propongono una gestione empirica del paziente (ma comunque solo fino a una certa età), l’uso di una strategia “test and treat” (ma solo se la prevalenza locale dell’infezione da Hp ne giustifica l’applicazione), l’inutilità delle terapie per le quali non esistono interessi di investimento, il tutto in una visione statistico-economicista in cui gli studi di simulazione computerizzata (basati su un set molto ristretto di parametri, non coincidente con la complessità clinica) continuano a esercitare un influsso rilevante.
L’aspetto che mi è sembrato più interessante è rappresentato dall’elevazione del cut-off per l’indicazione all’endoscopia dai 45 ai 55 anni.
Quello della quantificazione del cut-off legato all’età è una soluzione tipicamente specialistica, sulla base di database endoscopici. Questa soglia era stata inizialmente proposta attorno ai 45 anni e ora viene innalzata in quanto giudicato che la patologia neoplastica o comunque complicata si manifesti nella stragrande maggioranza dei casi con sintomi di allarme o nei giovani con sintomi lievi anche nelle fasi già avanzate, in modo che non si possa imputare a un ritardo diagnostico anche un ritardo terapeutico. Da dati italiani (Stanghellini V et al. Eur J Gastroenterol Hepatol 1999; 11: 1129-34) sappiamo che in realtà il rischio di patologia legato all’età cresce linearmente con l’età oltre i 40 anni e che i Mmg continuano a inviare agli accertamenti sulla base di valutazioni individualizzate sulle complesse problematiche di ciascun paziente piuttosto che basarsi su un fattore età (Cardin F et al. Scand J Gastroenterol 2002; 37: 1269-75).
La Consensus Conference del Gruppo Europeo di Studio sull’Hp del marzo 2005 (cosiddetto Maastricht 3) conferma la valutazione di questo gruppo di ricercatori su un cut-off per la strategia “test and treat” a una soglia di 45 anni. Evidentemente le società scientifiche americane (focalizzate alla patologia peptica) e questo gruppo europeo (interessato all’Hp) pur ragionando sullo stesso problema e con gli stessi dati hanno finito per creare una zona cuscinetto tra i 45 e 55 anni di età in cui il “test and treat” non è consigliato, ma l’endoscopia non è appropriata, per i quali quindi la strategia è legata a una terapia empirica acido-soppressiva.
Diversamente, Mmg olandesi hanno espresso una voce di buon senso, attraverso l’espressione di linee guida nazionali nelle quali si afferma la relatività del criterio età, che non viene pertanto proposto all’operatività dei colleghi (De Wit NJ et al. Ned Tijdschr Geneeskd 2005; 149: 1386-92).
Purtroppo le linee guida per le situazioni della medicina generale sono gestite quasi esclusivamente dagli specialisti dei centri di riferimento di terzo livello, senza che i Mmg possano contribuire a impostare le necessità gestionali. Questo continuerà a comportare una visione lontana dalle esigenze assistenziali.