M.D. numero 4, 14 settembre 2007

Dialoghi clinici
Decadimento cognitivo: inquadramento e terapia
Medicina Generale a cura di: Gian Paolo Andreoletti, Medico di medicina generale, Vertova (BG)
Specialistica a cura di: Giovanni Ricevuti, Direttore Divisione di Geriatria, Università di Pavia, ASP (Azienda Servizi alla Persona) IDR S. Margherita, Pavia, Giovanni Cuzzoni, Dirigente Medico, ASP
(Azienda Servizi alla Persona) IDR S. Margherita, Pavia e Enrico Marchioni, Fondazione IRCCS Neurologico “C. Mondino”, Università di Pavia

La diversità tra medicina generale e specialistica può essere fattore di arricchimento della pratica medica, se a prevalere è il momento dialogico, all’insegna della complementarietà, focalizzata sulle esigenze concrete che la gestione di una problematica fa emergere nella quotidianità.
M.D. propone, di volta in volta, un confronto tra le due discipline, fatto di domande precise e di risposte condivise.

L’invecchiamento della popolazione generale sta creando in questi ultimi anni una vera e propria emergenza sanitaria, rappresentata dal decadimento cognitivo, con tutte le gravi conseguenze sociali, economiche e assistenziali che esso comporta. Ogni medico di medicina generale si confronta ogni giorno con le spesso immani problematiche poste dalla gestione dei pazienti con demenza, su base vascolare o degenerativa. Si ha come l’impressione che l’aumento dell’aspettativa di vita, consentito dalle migliori qualità di vita e dai progressi medico scientifici, abbia creato in una parte importante della popolazione anziana una grave discrasia tra il corpo - spesso a lungo attivo e funzionale - e la mente - talora irrimediabilmente persa e confusa.

Come si distingue clinicamente una demenza su base degenerativa (tipo Alzheimer) da una demenza su base vascolare?
Sul piano clinico gli elementi distintivi tra la demenza di Alzheimer e la demenza vascolare sono individuabili soprattutto nelle fasi iniziali delle due patologie, ove la sintomatologia, specie all’esordio, presenta modalità peculiari, più facilmente utilizzabili quali elementi di diagnostica differenziale rispetto a quanto accade nelle fasi più avanzate, caratterizzate da una compromissione così profonda di tutto il corteo cognitivo/comportamentale da attenuare le differenze tra le due patologie.
Nel caso della malattia di Alzheimer (le altre demenze su base degenerativa, come la malattia a corpi di Lewy, la demenza fronto-temporale etc. hanno caratteristiche cliniche specifiche che le differenziano dalla malattia di Alzheimer), l’esordio è tipicamente costituito dal deficit di memoria, lentamente ma inesorabilmente progressivo, al quale nel corso della malattia si aggiunge il declino delle altre aree cognitive, con graduale comparsa di aprassia, agnosia e afasia e dei sintomi comportamentali (agitazione, irritabilità, vagabondaggio, reazioni catastrofiche, allucinazioni, deliri, insonnia, disinibizione, depressione, apatia ecc).
I disturbi del movimento (perdita degli schemi motori con allettamento finale) compaiono solo nell’ultima fase della malattia.
A differenza di quanto accade nella malattia di Alzheimer, nella demenza vascolare l’esordio è solitamente brusco, spesso preceduto da un evento cerebrovascolare acuto, e la progressione non è graduale, ma “a scalini”.
Sul piano cognitivo la manifestazione dominante all’inizio non è costituita dall’amnesia bensì dal rallentamento psico-motorio e dal venire meno delle funzioni esecutive. Frequenti i segni e sintomi neurologici, specie di tipo piramidale, che possono comportare deficit motori assai più precoci che nella malattia di Alzheimer, rispetto al quale anche la comorbidità cardio-vascolare e la prognosi quoad vitam sono più severe. I dati strumentali, forniti soprattutto dalla TAC e dalla RMN, costituiscono un importante contributo per la diagnosi differenziale, potendo evidenziare nel caso della malattia di Alzheimer le classiche aree di atrofia corticale e nel caso della demenza vascolare le lacune e la leucoaraiosi.


Quali altre patologie vanno escluse prima di porre diagnosi di demenza senile?
Vanno escluse tutte le patologie che possono essere alla base, soprattutto nell’anziano, delle cosiddette “demenze secondarie”. Si tratta di sindromi dementigene secondarie a cause non cerebrali, come i distiroidismi, le intossicazioni da taluni farmaci, stati disnutrizionali come la carenza di cianocobalamina e acido folico, stati dismetabolici come l’insufficienza renale o epatica o il diabete mellito scompensato, condizioni come lo scompenso cardiaco o le infezioni misconosciute. Poiché alcune di queste patologie sono perfettamente curabili, con restitutio ad integrum anche degli aspetti cognitivi, per questi casi è stato coniato il termine di “demenze reversibili”, tra le quali riveste particolare importanza e frequenza la cosiddetta “pseudodemenza depressiva”.

Quali farmaci vanno utilizzati nel trattamento della demenza su base vascolare?
Non esiste un protocollo terapeutico condiviso a livello internazionale per la cura delle demenze vascolari. Tuttavia, il controllo farmacologico di fattori di rischio come l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, la fibrillazione atriale cronica, l’iperomocisteinemia ecc, nonché l’impiego mirato di preparati ad azione antitrombotica ed emoreologica è consigliato dagli esperti anche nel trattamento dei pazienti anziani affetti da demenza vascolare.

Quali farmaci vanno utilizzati nel trattamento della malattia di Alzheimer?

I farmaci per il trattamento della malattia di Alzheimer sono costituiti dai preparati ad azione anticolinesterasica (donepezil, rivastigmina, galantamina) ai quali si è aggiunta in termini più recenti la memantina, un antagonista dei recettori NMDA. Sugli anticolinesterasici esiste una consolidata esperienza clinica e una numerosa letteratura scientifica, che ne confermano l’utilità nel rallentare l’evoluzione della malattia in un’elevata percentuale di casi (i cosiddetti responders) per un periodo compreso tra uno e due anni. Più controversa è la questione riguardante l’efficacia di lungo termine, nonché l’utilità dell’impiego nelle compromissioni cognitive avanzate e nelle demenze vascolari. Alcuni anticolinesterasici, come la rivastigmina, trovano indicazione, oltre che per il trattamento della malattia di Alzheimer, in quello della malattia a corpi di Lewy.

Quali sono le controindicazioni dei farmaci utilizzati per il trattamento della malattia di Alzheimer?
Le controindicazioni sono costituite dall’eventuale presenza di marcata bradicardia e/o turbe della conduzione cardiaca, nonché dalle condizioni implicanti broncostenosi.

Quali sono i farmaci più indicati per sedare un paziente con demenza senile e per ripristinare un corretto ritmo sonno-veglia?

La terapia per il trattamento dei cosiddetti BPSD (disturbi psichiatrici e comportamentali delle demenze) deve essere impostata solo dopo avere correttamente inquadrato il sintomo all’interno dei cosiddetti “clusters” comportamentali, che raggruppano i BPSD secondo aree sintomatologiche affini. In tal modo il trattamento non è più orientato “per sintomo” ma “per cluster”, e ad ogni cluster corrisponde una specifica strategia terapeutica.
In particolare:

  • il trattamento dei disturbi di tipo psicotico (allucinazioni, deliri) trova indicazione nei neurolettici dell’ultima generazione, i cosiddetti “atipici” (quetiapina, risperidone, olanzapina);
  • i disturbi appartenenti al cluster “agitazione” (irritabilità, affaccendamento, aggressività, oltre all’agitazione psicomotoria propriamente detta) possono essere trattati con stabilizzatori dell’umore come il valproato e il gabapentin, ma anche con taluni antidepressivi come citalopram, sertralina o paroxetina (che naturalmente vengono impiegati elettivamente in presenza di sintomi depressivi), mentre le benzodiazepine trovano indicazione solo in casi selezionati e in genere a basso dosaggio.
Per ripristinare un corretto ritmo sonno-veglia può essere utile l’impiego di melatonina ad alte dosi (6 mg) associata se necessario a trazodone (50-100 mg) o a benzodiazepine ipnoinduttrici, scegliendo quelle ad emivita più o meno breve a seconda che si debba trattare un problema di addormentamento oppure di risveglio precoce.

Il morbo di Parkinson può determinare un deficit cognitivo?

Il morbo di Parkinson è complicato in un’elevata percentuale di casi, nelle fasi avanzate di malattia, dalla comparsa di una sindrome dementigena che può configurare un quadro denominato “Parkinson-demenza”. Inoltre, manifestazioni extrapiramidali (“parkinsonismi”) sono presenti frequentemente nelle fasi terminali del morbo di Alzheimer e pressoché costantemente nell’encefalopatia a corpi di Lewy (una delle demenze degenerative più frequenti dopo la malattia di Alzheimer), di cui possono costituire una delle espressioni sintomatologiche d’esordio.
Questo “terreno comune” tra morbo di Parkinson e demenze degenerative, con manifestazioni sintomatologiche condivise, appare particolarmente evidente tra il morbo di Parkinson e l’encefalopatia a corpi di Lewy, entrambe caratterizzate da alterazioni motorie extrapiramidali e compromissione cognitiva, ma anche da un’alterazione metabolica presente in entrambe le patologie consistente nell’accumulo, nelle aree cerebrali interessate, di proteina tau.
Il morbo di Parkinson, oltre a colpire il sistema extrapiramidale provocando la nota sintomatologia caratterizzata da tremore, rigidità e ipocinesi, colpisce altre strutture con ripercussioni sulle funzioni cognitive, sulla sfera psichica e sul sonno. Tali alterazioni sono generalmente più frequenti e accentuate durante le fasi più avanzate della malattia, quando il livello di compromissione motoria è più spiccato.
Le alterazioni cognitive consistono essenzialmente in una demenza con aspetti prevalentemente sottocorticali che comprendono perdita dell’iniziativa, difficoltà del giudizio e via via alterazioni dell’orientamento e della memoria.
I disturbi della sfera psichica possono comparire in tutte le fasi della malattia in rapporto alle loro caratteristiche. Le alterazioni dell’umore, che rappresentano vere e proprie sindromi depressive maggiori scarsamente responsive ai trattamenti, si osservano anche nelle fasi precoci e talora in quelle inaugurali, prima che sia stata posta la diagnosi di morbo di Parkinson.
Le allucinazioni, generalmente complesse, sono caratterizzate da una forte componente visiva, prevalgono nelle fasi intermedio tardive e si presentano più spesso durante le ore notturne. La terapia dopaminegica e, in misura maggiore, i dopamino-mimetici possono aggravare le allucinazioni e, talvolta, esserne direttamente responsabili.
Le alterazioni del sonno, che talvolta possono precedere di anni la diagnosi di morbo di Parkinson, sono prevalentemente caratterizzate dai cosiddetti “Rem Behaviour Disorders” (RBD), che consistono in comportamenti improvvisi, talora violenti con movimenti bruschi e incontrollati, che si verificano durante la fase di sonno REM e possono essere facilmente diagnosticati con tecniche di registrazione polisonnografica e mediante l’ausilio di questionari ad hoc.

Come si diagnostica il morbo di Parkinson?
La diagnosi della malattia si basa fondamentalmente su criteri clinici variamente combinati che comprendono la nota triade: tremore prevalentemente a riposo, rigidità plastica diffusa e ipo-acinesia.
La positività del test alla L-DOPA che viene eseguito secondo una modalità standard permette di confermare la diagnosi nei casi dubbi.
All’esordio della malattia, la sintomatologia e l’obiettività neurologica mostrano una certa asimmetria del danno. In alcuni casi, soprattutto quando i criteri diagnostici classici non sono pienamente rispettati, il morbo di Parkinson idiopatico deve essere distinto dai cosiddetti parkinsonismi. Si tratta di una serie di condizioni classificate nel capitolo delle malattie neurodegenerative di cui la componente extrapiramidale rappresenta solo un aspetto del problema. Le più frequenti sono: la paralisi progressiva sopranucleare (PSP), la malattia dei corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale, l’atrofia multisistemica (MSA).
Alcune tra le caratteristiche cliniche che permettono di distinguere il morbo di Parkinson idiopatico dai parkinsonismi sono la mancanza del tremore, la simmetria dei sintomi e la mancata o insufficiente risposta al trattamento dopaminergico. In assenza di sicure evidenze cliniche la diagnosi di compromissione della via dopaminergica può essere confermata mediante l’esecuzione di una specifica tecnica di scintigrafia cerebrale che si basa sulla infusione di marcatori sinaptici (DAT scan).

Quali sono i trattamenti più indicati per la terapia del morbo di Parkinson?
La terapia del morbo di Parkinson si basa essenzialmente sulla somministrazione di: combinazione di L-DOPA e inibitori delle decarbossilasi, di sostanze dopamino-mimetiche e di inibitori delle monoamino ossidasi.
La forma idiopatica del morbo di Parkinson risponde generalmente molto bene ai trattamenti, in modo particolare durante i primi anni della malattia. Nella fasi più tardive il compenso neuromotorio può essere ottenuto con maggiori difficoltà a causa della comparsa di discinesie iatrogene e di blocchi motori da fine dose. Queste complicanze richiedono modificazioni opportune e modulari dello schema terapeutico, che possono essere effettuate solo da neurologici particolarmente esperti in materia di disordini del movimento.
Quando il controllo della malattia non può più essere ottenuto mediante la terapia farmacologica e in casi sottoposti ad accurata selezione è possibile ricorrere a tecniche di neurochirurgia funzionale basate sulla stimolazione di alcune strutture cerebrali profonde e che vengono denominate “Deep Brain Stim”.