M.D. numero 6, 28 febbraio 2007

Esperienze
Progetto Baobab: medici italiani in missione volontaria in Africa
di Rebecca Lamini


Programmi di formazione per infermieri e medici, la realizzazione di un centro sanitario e il vissuto dei colleghi che hanno partecipato all’iniziativa danno voce a un progetto in itinere che, grazie anche al contributo di Takeda Italia Farmaceutici, offre prospettive di crescita professionale e di assistenza in un Paese africano, il Ghana, dove c’è un medico ogni 16mila abitanti


Un villaggio polifunzionale, all’interno del quale far nascere un centro medico, un centro ricerche, un centro di raccolta e istruzione per i bambini di strada e un centro studi che arrivi fino all’università all’interno del quale, nel corso dei prossimi anni, formare tutte quelle professionalità necessarie e indispensabili, per fornire un’assistenza socio-sanitaria di qualità in modo indipendente dagli aiuti internazionali. È l’obiettivo del Progetto Baobab, realizzato in Ghana dall’associazione italo-ghanese Amicus Onlus grazie al contributo di Takeda Italia.

Lšimpegno di Takeda Italia nel sostegno del Progetto Baobab
Un impegno chiaro, con dei confini nettissimi, che consentono un’investimento sociale e culturale rilevante in una situazione di vuoto sanitario. L’impegno dell’industria farmaceutica Takeda Italia che con il lancio dello charity program ha accolto la richiesta della Amicus Onlus, associazione italo-ghanese, non governativa, apolitica, apartitica e aconfessionale, con una sede in Italia, a Busto Arsizio (VA), e una in Ghana, ad Accra.
L’impegno disinteressato nel sociale è sempre encomiabile e apprezzabile e lo è anche all’interno di una strategia aziendale. “Il coinvolgimento della classe medica in un’iniziativa di questo tipo - secondo alcuni dei medici partecipanti al progetto - può essere un modo nuovo e intelligente di utilizzo delle risorse”. Le aziende, hanno fatto notare altri medici volontari “impiegano molte risorse economiche per gadget o in iniziative che sono utili solo al singolo, mentre questo tipo d’iniziativa è sicuramente utile a un professionista per la sua crescita, ma anche a un Paese che ne ha molto bisogno”. I report dei medici che hanno partecipato al progettono segnalano, “molta correttezza e senso di responsabilità nei referenti dell’azienda”e la speranza che Takeda Italia continui a sostenere questo progetto.

Un sogno di Padre Caesar, un prete ghanese che, nei fatti, ha messo il suo sacerdozio al servizio del suo Paese, puntando, per la risoluzione della crisi economica e sociale della regione, allo sviluppo di professionalità specifiche tra la popolazione locale. Il Baobab è stato preso a simbolo del progetto perché in Africa è considerato l’albero della vita, generoso, mastodontico. Per poterlo abbracciare tante persone debbono darsi la mano. Pensare, anche se per poco tempo, a quanti hanno la sventura di una vita differente dalla nostra, dove le cose essenziali del vivere quotidiano sono un lusso, dove le malattie per noi più banali, come le infezioni batteriche, rappresentano per loro la principale causa di morte. Quale modo migliore per farlo se non quello di chiedere agli stessi professionisti della salute, che con la vita si confrontano personalmente e nel lavoro, di unirsi in questa catena di solidarietà?

Le esperienze sul campo


“La mia prima sensazione, appena arrivato in Ghana, è stata quella di essere proiettato in un mondo nuovo, del tutto differente da quello conosciuto fino ad ora, una sensazione forte, ma allo stesso tempo bella e da esplorare” racconta il Dott. Carlo Pezzi, che ha svolto un periodo di volontariato nell’ambulatorio del Distretto di Biriwa, nella Central Region a 14 Km dalla capitale regionale Cape Coast, prestando la sua opera di medico impegnato in una missione ad alto contenuto umanitario. Pezzi ricorda che l’arrivo all’ambulatorio “era previsto per le 8, orario d’inizio delle visite che continuavano fino alle 12. Poi pausa pranzo fino alle 13 per poi riprendere le visite fino alle 17. Dopo l’ambulatorio tutti rientravamo alla casa dove cenavamo verso le 18, dopo quell’ora si dava spazio al confronto con i colleghi, ai pensieri”. Un’esperienza che secondo Pezzi “ogni medico dovrebbe fare. Ti permette di capire realmente la missione di un medico, ti fa riconciliare con la professione medica e soprattutto ti dà un reale metro di quanto è prezioso ‘quello che sa’ e soprattutto quello che può fare”.
La D.ssa Rosa Bianca racconta che la sua giornata cominciava verso le 6 di mattina: “dopo aver consumato una frugale colazione partivo, con gli altri colleghi, verso le 7.50. Il lavoro all’ambulatorio continuava fino alle 17. Ci sono state giornate in cui ho visitato anche 100 pazienti. La giornata terminava con la cena e magari una partita a carte o un paio d’ore di ricamo”. L’entusiasmo e il rendersi utile in un mondo così diverso dal nostro “mi hanno accompagnato ad affrontare giornate molto intense, ricche di stimoli nuovi e di emozioni molto profonde che mi hanno segnata positivamente”.
La D.ssa Clelia Pontini, pediatra, tiene a precisare che la sua è stata “un’attività prevalentemente ambulatoriale con qualche piacevole diversione nel settore della prevenzione materno-infantile. Essendo pediatra la mia curiosità è stata soprattutto verso l’attività preventiva e vaccinale. Con il collega che mi affiancava abbiamo cercato di stendere un piccolo protocollo per la sterilizzazione dei ferri chirurgici e del set di medicazione. Purtroppo molto tempo è trascorso a far ordine nella farmacia, letteralmente sommersa da farmaci inutili in quel contesto”.
Il Dott. Giorgio M. Baratelli, specialista in chirurgia generale, che ha lavorato sia in ambulatorio a Biriwa che in ospedale a Saltpond, ha trovato nell’ospedale “grandi difficoltà organizzative forse dovute al fatto che sono stato il primo chirurgo italiano che ha operato in quella struttura”. Le difficoltà sono poi state superate grazie alla disponibilità del direttore dell’ospedale e delle infermiere. Baratelli ha potuto operare due casi, nella seconda settimana della sua permanenza: “ciò mi ha permesso di constatare la povertà ridotta all’essenziale della sala operatoria”. Una situazione che ha provocato nel medico italiano “un sentimento di disagio causato dal costante riscontro di un enorme divario tra una situazione con risorse limitate, dove occorre saper programmare e ‘risparmiare’ e una situazione, quella italiana, dove tutti, medici, infermieri e pazienti, si comportano come se le risorse fossero illimitate”. E il divario è altrettanto enorme, secondo il medico “tra una situazione dove nessuno pretende niente, dove i pazienti aspettano con pazienza, e una situazione dove tutti pretendono, per di più gratuitamente, subito e a volte con arroganza, dove i pazienti (e i loro familiari) più che pazienti andrebbero definiti im-pazienti”.

L’impatto con la popolazione


La condizione ambientale del progetto Baobab è realmente difficile. “Ho trovato una realtà - racconta il Dott. Ricciotti Valente, che non immaginavo così provata dalla povertà, anche se mi aspettavo qualcosa di simile. Ho avuto un gran dispiacere quando ho visto madri con 4 o 5 figli che non avevano l’equivalente di 2,5 euro per comprare la terapia contro la malaria. Questo mi ha fatto molto male e confesso che di notte mi si sono inumiditi gli occhi”. “Definire questa iniziativa importante è a dir poco riduttivo - precisa il Dott. Giampiero Bottani - la definizione più giusta è indispensabile. Il Ghana vive una situazione sanitaria a dir poco giurassica, un Ssn non esiste e di conseguenza di questo il paziente deve pagarsi i farmaci anche quando è ricoverato in ospedale. Il farmaco lì di per sé ha un costo che per noi sarebbe irrisorio, ma per loro non lo è”. Colpisce come, addirittura all’interno di un presidio più avanzato della media locale come quello finanziato dal progetto “possono essere eseguite solo poche procedure diagnostiche e terapeutiche. Oltre al rilevamento della pressione arteriosa e l’esame clinico generale del paziente, è possibile l’esecuzione di glicemia random con un glucometro, uno stick urine e poco altro.
L’esperienza del progetto Baobab, secondo Baratelli, sarà “importantissima, se continuerà nel tempo e se accanto all’opera di assistenza si promuoveranno iniziative di formazione ed educazione sanitaria per le infermiere (o medici) ghanesi, e in un secondo tempo, per la popolazione”. Anche per il Dott. Graziano Martinelli l’iniziativa amplificherà la propria importanza “se inserita in un progetto organico, se si riuscirà a dare continuità al lavoro e al rapporto con il personale locale attraverso una definizione precisa dei percorsi e degli obiettivi”.
Il Dott. Alberto Palazzi Trivelli, anch’egli volontario nel progetto, definisce la giornata tipo lavorativa: ‘la mutua dei malarici’ “senza limiti d’età, visto che - sottolinea - la stragrande maggioranza dei pazienti ricorre al nostro ambulatorio per queste problematiche. Occorrerebbe un medico in loco con esperienza africana e forti capacità organizzative”.
Un’attività forse ancora più importante, secondo altri tra i medici volontari, come per esempio la D.ssa Anastasia Moschopoulou, sarebbe quella di trovare un modo per intervenire nelle cure primarie: “dovremmo diffondere quelle conoscenze di base necessarie, per esempio, ad una donna incinta far conoscere come comportarsi in quel periodo così delicato della sua vita e del suo futuro piccolo, come comportarsi dopo la nascita per far sì che il bambino cresca nel migliore dei modi. Bisognerebbe puntare sulla medicina preventiva”.
Secondo il Dott. Graziano Martinelli ci sarebbe bisogno di alcune implementazioni per il progetto: “una o due giornate di formazione sulle principali malattie - sottolinea - e problematiche di più comune riscontro per i medici alla prima esperienza in Africa”, come anche un “coordinamento delle attività svolte dai medici che si danno il cambio”. Bisogna definire degli obiettivi anche minimi, ma verificabili, lasciando meno spazio allo spontaneismo dei volontari e stimolando un maggiore pragmatismo. Dal collega Pontini un piccolo suggerimento organizzativo: “Il contatto con l’ospedale distrettuale lo vedrei bene appena si arriva. In spirito di umiltà e collaborazione, darebbe subito il polso della realtà dove si va a operare, emergerebbero repentinamente le principali casistiche e soprattutto nel momento in cui si ci ritrova in ambulatorio a dover curare un caso grave si avrebbe un riferimento più preciso per gestire al meglio il malato”.