M.D. numero 9, 21 marzo 2007

Italia sanità
Ssr: non più questione di modelli, ma di sviluppo
di Gianluca Bruttomesso


È quanto hanno sottolineato gli esperti durante il convegno “I distretti sanitari nel modello sanitario lombardo”, organizzato a Milano, facendo notare che si registra un eccesso di pathos per gli assetti istituzionali formali, ma una debole attenzione ai processi di sviluppo organizzativo e di attuazione nell’innovazione


Qual è il miglior modello per il distretto sanitario italiano? Si tratta di una domanda ricorrente tra gli addetti ai lavori, consapevoli della stragrande eterogeneità di assetti istituzionali che si registrano sul nostro territorio. Ma prima di potere dare una risposta è necessario tenere ben presente che le performance dei modelli regionali dipendono da tre variabili: il capitale amministrativo disponibile, quello sociale e la cultura dei cittadini nei confronti del welfare pubblico. Secondo Francesco Longo, direttore del Cergas, il Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’Università Bocconi di Milano, tali variabili non sono influenzabili da nessun modello. La riflessione che va fatta non è quella di cercare il modello migliore, ma quello di interrogarsi se rispetto alle caratteristiche della singola Regione quel modello appare ragionevolmente coerente.
Il messaggio lanciato da Longo nel corso del convegno “I distretti sanitari nel modello sanitario lombardo”, organizzato a Milano in collaborazione con Ladd, l’Associazione lombarda direttori e dirigenti dei distretti sanitari, è chiaro: le Regioni sono approdate a modelli abbastanza stabili; ognuna ha il suo, che funziona coerentemente al proprio scenario, ma è giunto il momento di smettere di discutere sulle architetture istituzionali, e di lasciare il passo a una stagione in cui occuparsi di gestione, di mettere a regime i modelli, di farli funzionare. “Vi è un eccesso di pathos per gli assetti istituzionali formali - ha precisato Longo - ma una debole attenzione ai processi di sviluppo organizzativo e di attuazione nell’innovazione”.
Il leader Cergas ha lanciato un ulteriore messaggio, che suonerà a taluni come provocatorio: “Non è più vero che tutte le risorse sono affidate all’ospedale. Negli ultimi 5-7 anni i posti letto sono stati ridotti del 20-30%, a fronte di un’esplosione della spesa sociosanitaria (in Lombardia, per esempio è raddoppiata): deve cessare la retorica secondo cui nel territorio non ci sono le risorse. Nell’arco di questi anni i servizi territoriali hanno ricevuto una quota crescente di risorse, superando in molte Regioni il 50% della spesa. Tali servizi si trovano oggi di fronte a una nuova sfida, che non è più quella di dover chiedere risorse aggiuntive, ma di dimostrare il valore prodotto con i propri servizi”.

I modelli di distretto


Che le Regioni siano approdate a modelli abbastanza stabili è provato dalla conferma sostanziale dei risultati di un’altra ricerca nazionale condotta sui distretti dal Cergas Bocconi (Carbone et al, 2005). Premesso che la normativa nazionale dà piena autonomia legislativa alle Regioni purché si garantiscano determinati livelli assistenziali territoriali (art. 3-quinquies D.lgs 502/92), lo studio ha evidenziato quante hanno istituzionalizzato esplicitamente nell’ambito del distretto la separazione delle funzioni di committenza e di produzione. Per funzione di committenza s’intende la funzione di “definizione dei servizi necessari per rispondere ai bisogni dei cittadini su un determinato territorio”, che costituisce lo strumento indispensabile per la programmazione. In Lombardia il concetto è espresso in termini di programmazione, acquisto e controllo, con la creazione di un apposito Dipartimento aziendale, che fa decisamente orientare il distretto verso la funzione di governo della domanda. Carbone et al hanno evidenziato come dall’analisi documentale emerga che altre otto Regioni hanno esplicitato la separazione delle due funzioni enfatizzando sempre di più il peso della committenza nel mix delle attività “committenza-produzione” assegnate al distretto. È il caso dell’Emilia Romagna, con il cosiddetto “distretto della committenza”, orientata decisamente verso il modello di distretto integrato (concetto che si contrappone a quello di distretto “minimalista”, cui tendono Lombardia, Piemonte e Lazio), e del Veneto, con il cosiddetto distretto socio-sanitario. Piemonte e Lazio, con le funzioni amministrative e autorizzative, pure tendono alla funzione di centro di produzione territoriale, mentre la Toscana, con il distretto o Società della Salute, si pone in equidistanza tra le diverse tendenze (figura 1).
“In molte Regioni - commenta Longo - i distretti sono investiti, in maniera più o meno esplicita, del governo della funzione della committenza. Essa stenta a decollare, perché richiede lo sviluppo di sistemi di monitoraggio e valutazione del gap tra bisogni e consumi, rispetto a cui l’esperienza e gli strumenti culturali sono deboli”.
Alla luce delle considerazioni riportate sugli orientamenti regionali emerge una domanda di fondo sul ruolo e sul contenuto del distretto: deve essere l’interfaccia aziendale per il governo clinico della domanda oppure un centro territoriale di erogazione di servizi, o entrambe le cose? Inoltre, come varia la natura del distretto, a seconda che vengano posizionati diversi contenuti assistenziali o meno? Anche da questo punto di vista, emerge come le indicazioni regionali configurino ruoli diversi per i rispettivi distretti.
Analoghe considerazioni giungono dal raffronto tra le indagini conoscitive condotte dal Cergas in collaborazione con Ladd nel 2005 e nel 2006. La ricerca 2005 ha evidenziato come all’interno di una stessa Regione, la Lombardia, le Asl abbiano effettuato scelte differenziate, riconducibili ad almeno due profili dominanti, ovvero quello del “distretto funzionale” e quello del “distretto a matrice”. Nel primo caso i dipartimenti territoriali effettivamente governano ed erogano la maggior parte dei servizi, mentre il distretto coordina localmente il “legame debole” tra bisogni e risposte assistenziali. Nel secondo caso, invece, le unità operative (Adi, ambulatori, consultori) dipendono a seconda degli obiettivi e risorse sia dai dipartimenti sia dai distretti, determinando quindi una situazione in cui l’erogazione dei servizi viene per forza a dipendere da un’integrazione organizzativa, appunto a matrice. L’indagine 2006 porta ad affermare che il distretto in Lombardia non è monolitico, ma conforme alle caratteristiche socio-economiche e geografiche locali. “Lo studio di diversi casi aziendali - ha spiegato Paolo Tedeschi - ricercatore del Cergas Bocconi “conferma l’eterogeneità dei modelli distrettuali in Lombardia e la tendenza a cercare di connotare i ruoli dei distretti. Per esempio, Asl che intendono specializzare i distretti nell’analisi, governo e programmazione, per orientare l’offerta alla domanda, come accade a Pavia; Asl che responsabilizzano i distretti nell’erogazione delle prestazioni con dipartimenti tecnico-specialistici centralizzati, come succede a Cremona; Asl che sdoppiano la matrice distretto-dipartimento, distinguendo la funzione di programmazione (per esempio con aree territoriali di gestione sovra-distrettuali) dall’erogazione su base territoriale (in distretti socio-sanitari) integrati con dipartimenti “territorializzati” (a loro volta sdoppiati tra un livello centrale strategico e risorse trasferite ai distretti), come accade a Bergamo”.