M.D. numero 9, 21 marzo 2007

Riflessioni
La medicina di famiglia è moribonda?


Si discute sempre più sulla utilità del medico di famiglia, anzi della medicina di famiglia. Siamo davvero in fase terminale? Dobbiamo davvero rassegnarci a vedere il priore con l’olio santo? Certo è che il medico di famiglia è a un bivio e deve necessariamente rivedere il suo ruolo nel contesto del panorama sanitario nazionale ed europeo. Ha l’obbligo di riesaminare il modo di esercitare il suo mestiere, tenendo conto della evoluzione della società e dei progressi sanitari. Per esempio, il confronto con lo specialista o l’ospedaliero va riconsiderato in funzione degli obiettivi previsti dai diversi ruoli. Entrambi possono ottenere risultati, in termine di diagnosi e terapia, più “credibili” di quelli del medico di medicina generale. Il medico ospedaliero ha a disposizione una struttura polivalente e organizzata e lo specialista è facilitato dagli esami strumentali e clinici precedenti che sottostanno alla sua specifica consultazione. Chi vi si rivolge ha prima consultato altri medici e spesso fatto molte indagini. Il Mmg nel suo ambulatorio può contare su attrezzature meno tecnologiche, per esempio, lo stetoscopio, il Riva Rocci e sulla fede nel suo intuito. Nell’approccio con l’assistito il Mmg avanza delle ipotesi sulla base dell’esame clinico e anamnestico, ma si tratta di ipotesi che solo successivamente e in ambiente ospedaliero e specialistico possono diventare certezze, cioè diagnosi. Ma tale funzione si può definire marginale, superflua o addirittura inutile?
Il paziente, prima di avventurarsi nel labirinto degli ospedali o nello studio di uno specialista, ha bisogno di un primo contatto più diretto e familiare, con una persona alla quale possa comunicare timori e attese. Chi più adatto del medico curante? Egli ascolta, osserva, s’informa, sintetizza, elabora un suo giudizio (non una diagnosi) e alla fine trasmette la sua idea. Può essere un’ipotesi di diagnosi, un giudizio che si traduce in un suggerimento o può essere una semplice dichiarazione chiarificatrice che ridimensiona i timori dell’assistito. Non è poco.
Da millenni si sostiene che la malattia in sintesi è la rottura dell’equilibrio interno tra corpo e spirito. Ebbene il medico di famiglia, proprio per la sua specificità di competenze, attraverso il rapporto empatico con il proprio paziente è propedeutico a ristabilire tale equilibrio. Per il Mmg hanno pari dignità sia la patologia del malato, in senso biologico, sia il vissuto di malattia. La relazione con il paziente quindi non è un mezzo, ma una parte fondante di un processo diagnostico.
Ma allora da dove origina il grido d’allarme sul non futuro di questo professionista?
Si fonda sulla chiara percezione che se la medicina generale come disciplina vuole sopravvivere deve fare un serio e coraggioso esame sullo stato professionale di chi la esercita.
Più in particolare il medico di famiglia deve fare un passo indietro e ritornare alla sua funzione clinica originaria. Situazioni oggettive, ma anche scelte di rassegnazione individuale, hanno fatto in modo che il Mmg stia in ambulatorio lo stretto tempo necessario per fare le ricette. È possibile che impegni di vario genere, visite domiciliari, grane con la Asl, sottraggono tempo e risorse all’ambulatorio. Ma spesso capita che le otto ore fissate dalla convenzione siano disattese. Una tale prassi è sicuramente più confacente a un impiegato, a un burocrate, ma di sicuro non a un medico. L’assurdo poi è che ausili tecnici, nati con lo scopo di migliorare la qualità del lavoro del Mmg e del rapporto con il paziente, finiscano per metterlo in crisi. È il caso, per esempio, dell’utilizzo della cartella clinica informatizzata. Di sovente l’attenzione del medico è rivolta più alla sua ricerca e consultazione che al paziente seduto di fronte, il cui sguardo si incontra per caso e a intermittenza. Altro che processo empatico e relazionale!
Cari colleghi, non rimpiango certo la carrozza con i cavalli o il lume a petrolio, ma se l’automobile o l’elettricità non servono a raggiungere lo scopo per cui sono state create, allora il loro impiego è nullo.
Alla base della professione c’è la vocazione, la nostra è un’attività di servizio e come ogni attività di questo tipo è difficile da sostenere perché aperta verso l’altro. Ma non basta, perché il Mmg deve aggiungere anche la passione. Se uno difetta di tali presupposti, non gli resta che pentirsi di avere scelto questa professione. Retorica? Liberi di pensarlo, ma la realtà è questa.
Molti colleghi dovrebbero interrogare se stessi e il loro rapporto con la professione, prima di affermare che la medicina di famiglia è morta e sepolta.
Bisogna che i medici di famiglia trasmettano all’assistito la certezza della loro presenza, bisogna che si rendano conto che la loro attività va svolta con dedizione e spirito di servizio. I confronti con altre categorie sono impropri. Ognuno deve svolgere il proprio ruolo. I tempi cambiano e non si può certamente pretendere che la categoria, oltre alla durezza della professione, sopporti l’ottusità della burocrazia e l’incomprensione di altre categorie. Le autorità, dal canto loro, dovrebbero facilitare e non aggravare la situazione con lacci e lacciuoli. Ma purtroppo non lo fanno.

Francesco Giuseppe Romeo,
Medico di medicina generale
Firenze