M.D. numero 19, 30 maggio 2007

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Gli effetti meno conosciuti delle statine
di Simona Palermo

Gli studi sull’azione antinfiammatoria delle statine sembrano poter suggerirne l’impiego anche nel trattamento di malattie croniche progressive in cui la componente infiammatoria svolga un ruolo importante: una recente rassegna fa il punto della situazione

U
na consistente mole di dati sperimentali attribuisce alle statine, i più potenti farmaci per il trattamento dell’ipercolesterolemia, una serie di effetti benefici a livello cardiovascolare che, influendo sulla funzione endoteliale, la coagulazione, la composizione della placca, contribuiscono a ridurre significativamente morbilità e mortalità. L’ipotesi, che trova conferme sperimentali sempre più numerose, è che tali effetti, detti pleiotropici, siano indipendenti dalla riduzione della concentrazione plasmatica dei lipidi e siano invece dovuti al fatto che le statine, inibendo la sintesi di L-mevalonato (precursore del colesterolo), impediscono anche la sintesi di importanti intermedi isoprenoidi, i quali intervengono nella modificazione post-trasduzionale (isoprenilazione) di proteine.

Azione antinfiammatoria


Tra i presunti effetti ancillari, particolare interesse sta rivestendo l’esistenza di un’azione antinfiammatoria, che include l’inibizione della formazione di radicali liberi dell’ossigeno, dell’attivazione dei linfociti T, della produzione di metalloproteinasi, dell’espressione delle molecole di adesione nei leucociti e di citochine infiammatorie (TNF-a, proteina C-reattiva, interleuchine, ligando CD40, fattori di crescita e chemochine), nonché l’aumento della concentrazione disponibile di ossido di azoto, indispensabile per la funzionalità endoteliale.
È ben documentato in letteratura che i suddetti fattori, e le citochine in particolare, giocano un ruolo chiave nella rottura della placca e nel processo aterogeno. Allo stesso modo, si ipotizza che i mediatori dell’infiammazione possano avere un ruolo anche nella patogenesi di malattie cardiovascolari e altre malattie croniche progressive.
A partire da questa ipotesi, Forrester e Libby (Am J Cardiol 2007; 99: 732-8) hanno recentemente passato in rassegna i principali dati clinici e di laboratorio che potrebbero giustificare l’impiego di statine anche nel trattamento di malattie croniche progressive.
La maggior parte dei dati a disposizione sulla presunta azione antinfiammatoria delle statine sono stati ottenuti in vitro o su modelli animali. Le prime evidenze cliniche che suggeriscono un ruolo delle statine nel trattamento di malattie neuroinfiammatorie sono state ottenute su pazienti con sclerosi multipla, per i quali è stata osservata una riduzione significativa delle lesioni cerebrali in seguito alla somministrazione di simvastatina (Lancet 2004; 363: 1607-8). Più recentemente sono stati intrapresi studi clinici randomizzati e controllati con placebo volti ad accertare il ruolo delle statine nel trattamento della malattia di Alzheimer. Gli effetti ancillari delle statine su questa invalidante malattia neurodegenerativa erano già stati analizzati in precedenti studi osservazionali. Tuttavia, sebbene alcuni autori abbiano suggerito un’azione neuroprotettiva delle statine, l’attendibilità dei risultati è apparsa molto spesso limitata da un debole disegno sperimentale.
Altre evidenze suggeriscono un effetto benefico delle statine anche sullo scompenso cardiaco, in quanto sarebbero in grado di ridurre l’ipertrofia del miocardio, l’apoptosi dei cardiomiociti e lo stress ossidativo, ristabilendo la funzione endoteliale e l’equilibrio neurormonale (Int J Cardiol 2007; 115: 144-50). Tuttavia, questi dati vanno interpretati con cautela in quanto, per esempio, è stato osservato che le statine inibiscono la produzione di ubichinone, un coenzima essenziale per la produzione di energia e la cui carenza può compromettere la funzionalità cardiaca. Inoltre, si ritiene che la riduzione di colesterolo indotta dalle statine possa comportare dei rischi nel paziente scompensato.
Ma i dati più sorprendenti arrivano dalle ricerche in ambito oncologico: in studi in vitro e su modelli animali le statine hanno mostrato di ridurre in modo significativo e dose-dipendente il numero di colonie di gliomi maligni. Sebbene l’ipotesi di un ruolo protettivo delle statine nei confrontino dei tumori sembri trovare conferma nell’analisi retrospettiva di vasti database clinici, i meccanismi che starebbero alla base di questo effetto vanno verificati attraverso ulteriori studi sperimentali.
In conclusione, la maggior parte dei dati finora ottenuti negli studi sugli effetti ancillari delle statine, sebbene assai incoraggianti, restano per ora ipotesi speculative. Se queste trovassero conferma nei numerosi studi clinici randomizzati attualmente in corso, mostrando un effetto terapeutico più ampio e complesso di quello ipocolesterolemizzante, le lista delle indicazioni di questa famiglia di farmaci potrebbe essere notevolmente ampliata.