M.D. numero 20, 6 giugno 2007

Rassegna
Nuovi fattori di rischio cardiovascolare
di Maria Cristina Ribaudo, Fausta Micheletta, Giuseppe Rosano - Dipartimento di Scienze Mediche, Centro di ricerca clinica e di base, Unità di Ricerca Cardiovascolare, IRCCS San Raffaele, Roma

I fattori di rischio classici (iperlipidemia, ipertensione arteriosa, diabete, fumo, sedentarietà, obesità) sono oggi affiancati dalla sindrome metabolica e da una serie di marker specifici quali Lp(a), omocisteina, proteina C reattiva, adiponectina. Tali “nuovi” indicatori sembrano essere correlati con lo sviluppo di eventi cardiovascolari, ma i dati della letteratura non sono sempre concordanti


L
e malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte. Mentre la mortalità per patologia cardiache e cardiovascolari è in diminuzione nel sesso maschile, nelle donne si osserva un costante aumento di incidenza dall’inizio degli anni Ottanta. Ciò è dovuto in parte alla crescita della popolazione femminile in menopausa e in parte per l’avere considerato i fattori di rischio cardiovascolare equipollenti nei due sessi.
Oggi è chiaro che mentre negli uomini elevati valori di colesterolo totale e C-LDL rappresentano il principale fattore di rischio, nelle donne - sempre per patologia vascolare - il diabete mellito e gli aumentati valori pressori hanno un’importanza maggiore nel determinare eventi cardiovascolari. Per di più nelle donne l’associazione ipertensione arteriosa-diabete mellito conferisce un aumento del rischio cardiovascolare doppio rispetto agli uomini.
Le evidenze che i fattori di rischio tendono ad associarsi nello stesso paziente e che spesso ipertensione arteriosa e turbe del metabolismo glucidico hanno fattori patogenetici comuni ha portato alla definizione di un corteo sindromico noto come sindrome metabolica.

Sindrome metabolica

La sindrome metabolica è una condizione clinica caratterizzata dalla presenza concomitante di molteplici fattori di rischio quali obesità addominale, insulino resistenza (con o senza alterazioni glicemiche), dislipidemia, ipertensione arteriosa, stato procoagulativo e proinfiammatorio che svolgono un ruolo fisiopatologico importante nello sviluppo di malattie cardiovascolari.
Le definizioni proposte sono state numerose (tabella 1):

  • WHO 1999 (World Health Organization);
  • NCEP-ATPIII 2001 (Third Report of The National Cholesterol Education Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Cholesterol In Adults - Adult Treatment Panel III);
  • EGIR 2002 (European Group For The Study of Insulin Resistance);
  • AACE 2003 (American Association of Clinical Endocrinologists);
  • IDF 2005 (International Diabetes Federation).

A tutt’oggi però non si è ancora giunti a una definizione univoca del complesso quadro patologico in esame, sebbene la proposta del 2001 sembrerebbe quella più facilmente applicabile nella pratica clinica.

Gli studi


Diversi studi osservazionali hanno dimostrato che la sindrome metabolica determina un aumento pari a circa 2 volte il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari e pari a circa 5 volte quello di nuova insorgenza di diabete mellito. Tale rischio aumenta in modo progressivo e lineare in relazione al numero degli elementi caratterizzanti la sindrome presenti nel singolo paziente.

  • Una delle prime dimostrazioni della correlazione tra numero di fattori di rischio e mortalità cardiovascolare è stata fornita dal “Multiple Risk Factor Intervention Trial”, che ha dimostrato che un numero crescente di fattori sia associato a un crescente rischio di mortalità vascolare, rischio da 3 a 4 volte maggiore in presenza di diabete.
  • Il Botnia Study ha dimostrato che tra i vari fattori di rischio solo la dislipidemia (ipertrigliceridemia e/o bassi livelli di C-HDL) era correlata con la cardiopatia ischemica, mentre la sindrome metabolica (valutata con i criteri WHO) correlava significativamente non solo con la cardiopatia ischemica, ma anche con l’infarto del miocardio e con l’ictus cerebri.
  • Lo studio DECODE ha dimostrato che la prevalenza della sindrome metabolica (valutata con i criteri WHO lievemente modificati) risultava lievemente superiore negli uomini rispetto alle donne e globalmente si aggirava intorno al 15% della popolazione studiata. La mortalità generale nei soggetti con sindrome metabolica era 2.26 volte superiore negli uomini e 2.78 volte superiore nelle donne rispetto ai soggetti senza sindrome dopo aver corretto per età, fumo e ipercolesterolemia. Inoltre nei pazienti con ipertensione e diabete il rischio era di 2.5 per gli uomini e 4.8 per le donne.
  • Lo studio ARIC ha riscontrato che la sindrome metabolica diagnosticata con i criteri ATP III era presente nel 28% degli uomini e nel 34% delle donne. Durante 11 anni di follow-up l’aumento del rischio di cardiopatia ischemica associato a sindrome metabolica era 1.7 volte superiore negli uomini e 2.6 volte nelle donne con la sindrome.
  • Una metanalisi pubblicata nel 2006 ha confrontato 21 studi che esaminavano l’associazione tra sindrome metabolica e rischio cardiovascolare. I risultati hanno confermato un incremento del 35% della mortalità per tutte le cause, del 53% per patologie cardiovascolari del 52% per patologia coronarica e del 76% per ictus cerebri. Il rischio relativo di patologie cardiovascolari associato alla sindrome metabolica risultava più elevato nelle donne rispetto agli uomini e più elevato negli studi che avevano usato i criteri WHO per definire la sindrome metabolica rispetto agli studi che avevano utilizzato i criteri ATP III.
  • Questi dati sono stati confermati da una recente metanalisi (nella quale sono stati valutati 37 studi longitudinali, dal 1971 al 1997) che includevano 172.573 soggetti. Lo studio ha evidenziato che la sindrome metabolica determina un aumento del rischio di eventi cardiovascolari e di morte del 78%. Tale aumento del rischio era più evidente nelle donne (63% vs 78%), inoltre il rischio era maggiore nel sesso femminile negli studi in cui erano stati arruolati soggetti con rischio minore (<10%), e negli studi che avevano usato i criteri WHO per definire la sindrome metabolica (RR 2.68 e 2.06 vs 1.67 con i criteri NCEP e 1.35 con altri criteri, p= 0.005).
Da quanto enunciato è evidente che, nonostante limiti e non uniformità di criteri adottati per la definizione di sindrome metabolica, è estremamente importante identificare i soggetti affetti, al fine di attuare un intervento di prevenzione delle complicanze cardiovascolari e in generale per ridurre la morbilità e la mortalità.

Obiettivo terapeutico


L’obiettivo terapeutico della sindrome metabolica deve essere indubbiamente orientato in primo luogo alla riduzione dei fattori ambientali (obesità, sedentarietà, ecc) oltre che al trattamento dei fattori di rischio per aterosclerosi, trombosi e malattie cardiovascolari.
L’evidenza scientifica ha da tempo indicato come una corretta alimentazione e una costante attività fisica determinino un netto miglioramento di molti parametri associati ad aumentato rischio cardiovascolare come l’assetto lipidico, l’insulino-resistenza, i livelli di pressione arteriosa, l’eccesso di tessuto adiposo.
Lo studio FinRisk ha dimostrato che un programma di riabilitazione fisica e dieta riduce il rischio di diabete mellito di circa il 50% nelle donne con sindrome metabolica.
Inoltre dati dell’ATP III dimostrano come la riduzione pressoria sia più importante nelle donne che negli uomini. Infatti la riduzione delle pressione arteriosa a livelli ottimali (135 mmHg sistolica) o ideali (120 mmHg sistolica) induce una stessa riduzione del rischio cardiovascolare negli uomini, mentre nelle donne la strategia più aggressiva riduce significativamente di più il rischio.
È importante notare che la modificazione del rischio cardiovascolare che avviene dopo la menopausa è multifattoriale e dovuta alla riduzione dei livelli degli ormoni sessuali. Tale riduzione ormonale causa un aumento dei valori pressori e del colesterolo, ma anche un aumento di peso con una redistribuzione del grasso che da ginoide diviene androide.
L’aumento dell’adiposità addominale nelle donne facilita lo sviluppo di diabete e ipertensione arteriosa. Pertanto l’obesità addominale rappresenta un importante fattore di rischio modificabile nel sesso femminile che necessita di un intervento precoce soprattutto nei primi anni dopo la menopausa.

Adiponectina

Il tessuto adiposo, una volta considerato come un sito inerte di deposito di substrati energetici, ha assunto negli ultimi anni un’importanza rilevante come organo endocrino che rilascia ormoni nel sangue e che prende parte direttamente allo sviluppo di insulino-resistenza, obesità e diabete. I principali ormoni prodotti dal tessuto adiposo sono l’adiponectina, la leptina, la resistina.
L’adiponectina, proteina plasmatica prodotta esclusivamente da adipociti, agisce prevalentemente nel muscolo e nel fegato dove svolge un’azione insulino-sensibilizzante e antidiabetogena. A livello epatico inibisce l’espressione di alcuni enzimi della gluconeogenesi e a livello muscolare aumenta il trasporto di glucosio e l’ossidazione di acidi grassi.
Nei pazienti obesi diabetici i livelli di adiponectina sono significativamente ridotti. Essa migliora la sensibilità insulinica in tutto l’organismo, facendo ipotizzare che i bassi livelli di questo ormone nei diabetici di tipo 2 siano una delle cause di insulino-resistenza.
Numerosi studi sull’uomo hanno dimostrato come ridotti livelli di adiponectina siano associati ad aumento del Body Mass Index (BMI), riduzione della sensibilità insulinica, alterazioni del quadro lipidico, aumento dei marker infiammatori e del rischio cardiovascolare, aumento di incidenza di infarto miocardio e progressione della malattia coronarica.

Omocisteina

L’omocisteina è un aminoacido sulfidrilico che deriva dalla conversione metabolica dell’aminoacido essenziale metionina. Un incremento dei livelli plasmatici di omocisteina si può riscontrare in soggetti con difetti genetici, alterazioni acquisite o più spesso una combinazione delle due condizioni.
Negli ultimi due decenni sono state fornite molte evidenze scientifiche a favore di un possibile ruolo dell’iperomocisteinemia lieve-moderata (da 15 a 100 mmol/l), quale fattore di rischio per patologie cardiovascolari con particolare riferimento alla malattia aterotrombotica.
Numerosi studi retrospettivi caso-controllo hanno dimostrato l’associazione tra iperomocisteinemia e malattie cardiovascolari, in particolare malattia coronarica, cerebrovascolare e arteriosa periferica. I risultati di tali studi sono stati analizzati in una metanalisi che ha mostrato un significativo aumento del rischio relativo di coronaropatia (RR 1.7, 95% CI 1.5-1.9), di patologia cerebrovascolare (RR 2.5, 95% CI 2.0-3.0) e di arteriopatia obliterante periferica (RR 6.8, 95% CI 2.9-15.8) in soggetti con elevati livelli plasmatici di omocisteina.
Contrariamente a ciò, i risultati forniti dagli studi prospettici, che hanno valutato la relazione tra omocisteinemia e rischio di malattia cardiovascolare in soggetti sani al momento dell’arruolamento, hanno mostrato una meno chiara e meno forte associazione tra iperomocisteinemia e patologia cardiovascolare. Infatti, dopo aggiustamento per fattori di rischio maggiori, l’iperomocisteinemia è risultata un modesto predittore indipendente di cardiopatia ischemica e ictus nella popolazione sana.
I dati preliminari forniti dagli studi caso-controllo e prospettici non hanno al momento trovato conferma nei primi trial clinici, randomizzati e controllati con placebo, sull’effetto della supplementazione vitaminica. Infatti, la supplementazione con acido folico associato o meno a vitamine del gruppo B non è stata in grado di ridurre la ricorrenza di eventi vascolari maggiori in tre diverse popolazioni di pazienti con malattia vascolare (recente IMA, recente ictus ischemico e pazienti con diabete mellito e alto rischio cardiovascolare) nonostante la riduzione dei livelli plasmatici di omocisteina.

Proteina C reattiva

La proteina C reattiva (PCR) è una proteina di fase acuta, che è stata dimostrata essere un affidabile marcatore di infiammazione sistemica.
Sebbene i livelli di PCR aumentino drasticamente in risposta a processi infettivi maggiori o a traumi, nei soggetti asintomatici le concentrazioni plasmatiche di PCR sono molto stabili nel lungo termine. Per tale motivo e sulla base dell’ipotesi infiammatoria dell’aterosclerosi la PCR è stata studiata in varie popolazioni di pazienti affetti o a rischio di malattia cardiovascolare, ed è stata infine proposta quale nuovo fattore di rischio cardiovascolare.
Numerosi studi epidemiologici prospettici (spesso provenienti dallo stesso gruppo che detiene la royalties per la PCR ad alta sensibilità) hanno dimostrato che i livelli di PCR hanno un elevato valore predittivo a lungo termine per il verificarsi di eventi cardiovascolari (infarto miocardico, ictus cerebrale e sviluppo di arteriopatia periferica clinicamente manifesta) indipendentemente dai livelli di C-LDL e dalla classe di rischio cardiovascolare.
Nel 2003 il Center for Disease Control (CDC) e l’American Heart Association (AHA) hanno prodotto le prime linee guida che propongono l’utilizzo della PCR quale fattore di rischio, in aggiunta ai fattori tradizionali, per lo screening cardiovascolare.
Sulla base dei dati disponibili in letteratura sono stati stabiliti dei valori di PCR in base ai quali definire il rischio cardiovascolare del paziente: livelli <1 mg/L identificano un basso rischio, valori compresi tra 1 e 3 mg/L un rischio intermedio e valori >3 mg/L un alto rischio. Tuttavia tali valori non sono standardizzati e mancano valori di normalità per la popolazione europea.
Sebbene i numerosi dati forniti dagli studi sulla PCR e le malattie aterosclerotiche cardiovascolari fanno di questo marcatore di infiammazione un potenziale nuovo fattore di rischio cardiovascolare da utilizzare nella pratica clinica, per la stratificazione del rischio l’utilizzo della PCR è di scarsa rilevanza quando aggiunto al calcolo del rischio cardiovascolare effettuato con il metodo europeo (SCORE).

Lipoproteina(a)


Elevati livelli plasmatici di lipoproteina(a) - Lp(a) - sembrano essere associati a un aumentato rischio di malattia cardiovascolare indipendentemente dall’associazione con altre alterazioni del profilo lipidico e fattori di rischio noti. La Lp(a) è una lipoproteina ricca di colesterolo che presenta similarità strutturali con le LDL, dalle quali si differenzia per la presenza dell’apolipoproteina(a) - ApoA.
L’apolipoproteina(a) presenta una notevole omologia strutturale con il plasminogeno, con il quale sembra condividere un effetto protrombotico eventualmente responsabile dell’associazione tra Lp(a) ed eventi cardiovascolari in vivo.
Una recente metanalisi ha analizzato i risultati di 27 studi prospettici che hanno riportato la correlazione tra livelli plasmatici di Lp(a) ed eventi cardiovascolari (mortalità per cardiopatia ischemica e infarto miocardio non fatale).
In un periodo di follow-up medio di 10 anni sono stati complessivamente osservati più di 5.000 casi di cardiopatia ischemica in pazienti sani (18 studi) e con malattia cardiovascolare pre-esistente (9 studi). Il rischio relativo di cardiopatia ischemica nei soggetti con livelli di Lp(a) nel terzo superiore rispetto al terzo inferiore è risultato significativamente aumentato, 1.7 (95%, CI 1.4-1.9) nella popolazione di pazienti sani e 1.3 (95%, CI 1.1-1.6) in quella con malattia pre-esistente.
Tale associazione è stata successivamente confermata da una grande studio prospettico che ha incluso più di 9.000 pazienti senza storia di cardiopatia ischemica e in assenza di farmaci ipolipidemizzanti. Il rischio relativo di eventi cardiovascolari (morte coronarica, infarto miocardico e angina pectoris) nei soggetti con livelli di Lp(a) nel quartile più alto è risultato 1.5 volte maggiore rispetto ai soggetti nel quartile più basso (RR 1.56; 95% CI 1.1-2.21). Quest’ultimo studio ha inoltre dimostrato che la presenza di elevati livelli di Lp(a) aggrava in maniera significativa il rischio cardiovascolare associato alla presenza di elevati livelli di LDL.
Nonostante il grande numero di evidenze fornite a favore di un ruolo della Lp(a) quale nuovo fattore di rischio cardiovascolare, non esistono al momento trial clinici di intervento farmacologico in grado di chiarire un nesso di causa-effetto di tale associazione.
A questo proposito bisogna sottolineare che le concentrazioni plasmatiche di Lp(a) aumentano in menopausa e sono poco modificabili dalla dieta, dall’attività fisica e dai farmaci ipolipidemizzanti a disposizione, fatta eccezione per la niacina e la terapia ormonale sostitutiva. Infatti, studi caso-controllo e studi osservazionali longitudinali hanno indicato che la terapia ormonale sostitutiva è in grado di ridurre i livelli plasmatici di lipoproteina(a) dal 10% al 50%. Questa osservazione è stata supportata da un recente trial clinico randomizzato e controllato con placebo (PEPI study) nel quale i livelli di Lp(a) sono stati valutati dopo 12 e 36 mesi di terapia estroprogestinica. La terapia ormonale si è dimostrata in grado di ridurre in maniera significativa i livelli di Lp(a) rispetto al placebo (17-29%).
Analoghi risultati sono stati forniti da una sottoanalisi dello studio HERS (Heart and Estrogen/progestin Replacement Study) nel quale si è visto che aumentati livelli di Lp(a) sono un predittore di rischio indipendente per ricorrenza di malattia cardiovascolare nelle donne in menopausa, e che il trattamento con estroprogestinici è in grado di ridurne in maniera significativa i livelli plasmatici rispetto al placebo.

Conclusioni


In base a quanto riportato si può concludere che la prevenzione della patologia cardiovascolare è ottenibile con un’adeguata modificazione dello stile di vita e con un trattamento intensivo di tutte le componenti della sindrome metabolica.
È sicuramente importante tenere in considerazione i nuovi fattori di rischio nella stratificazione del rischio cardiovascolare in ogni singolo paziente considerando il differente impatto che hanno nei due sessi.
Per quanto riguarda i nuovi marcatori quali adiponectina, lipoproteina (a), omocisteina, proteina C reattiva, mancano o sono discordanti dati di efficacia di prevenzione primaria o secondaria forniti da studi clinici d’intervento randomizzati e controllati con placebo.